Scuola

Istruzione, i dati non sono confortanti. Ma una cosa è chiara: la scuola serve

Il report dell’Istat sui livelli di istruzione e ritorni occupazionali per il 2019 certifica una situazione triste e già ben nota, ma evidenzia anche dati sorprendenti che, nella loro chiarezza, potrebbero costituire le basi di un programma politico lungimirante.

Il 62% degli italiani tra i 25 e i 64 anni ha almeno un diploma, nell’Ue sono il 78,7%. I principali paesi europei presentano tutti un valore superiore all’80%, dietro di noi Spagna, Malta e Portogallo. Difficile comparare sistemi scolastici diversi – per fare un esempio, le Hauptschule tedesche rilasciano il diploma superiore, ma sono più simili ai nostri corsi di formazione professionale -, tuttavia è evidente che nel nostro paese sono ancora troppe le persone con un livello di scolarità troppo basso per affrontare con successo il mondo del lavoro.

Dunque l’obiettivo è aumentare il numero di giovani che arrivano al diploma, rimuovendo gli ostacoli che rendono la scuola superiore una barriera insuperabile per un terzo dei giovani che vi si affacciano. Qualche spunto: ridurre il numero di allievi per classe, soprattutto nelle classi iniziali (le prime e le terze) dove, non a caso, è maggiore la dispersione, l’abbandono, l’insuccesso.

Poi: formare i docenti all’inclusione, costruendo anche qualche utile esperienza di lezione e attività didattica diversa dalla recita della lezione dalla cattedra (esperienze ce ne sono tante e buone, bisogna metterle a sistema); favorire la sperimentazione di modelli di assistenza e tutoraggio degli studenti (e delle famiglie) che manifestano difficoltà, disagio e devianza, impegnando insegnanti e professionisti.

Ancora: fare del collegamento con i servizi sociali ed educativi del territorio non la palestra di chiacchiere e scambio di carte che a volte sono, ma un deciso e potente strumento di progettazione e controllo di percorsi utili a riportare dentro chi è già fuori; strutturare percorsi di apprendimento che non partano dalle culture/conoscenze dei docenti, ma dalla messa in pratica di programmi e metodi di lavoro utili a portare gli allievi al successo scolastico.

Poi ci vogliono anche i banchi monoposto e le scuole in ordine, soprattutto occorrono modi condivisi per rilevare il rispetto di standard minimi di apprendimento, giusto per garantire il minimo a tutti e in ogni luogo del paese.

Sempre l’Istat certifica che fra i giovani 18-24 anni, il 64,6% dei non diplomati è senza occupazione. Nella stessa fascia d’età i diplomati disoccupati sono il 46,4% (nel dato sono compresi quelli che vanno ancora a scuola o che frequentano l’università). Dunque la scuola serve. Non è più l’ascensore sociale degli anni del boom, ma continua a essere uno strumento utile a migliorare la posizione nella società. Ecco una buona motivazione a frequentarla.

La povertà scolastica degli italiani è poi confermata dai dati relativi ai laureati: 19,6% in Italia contro il 33,2% della media europea, un divario che resta quasi invariato di anno in anno a certificare la cronicità dell’arretratezza. Nonostante questo solo il 78,9% dei nostri laureati 30-34enni è occupato, contro una media Ue dell’87,7%: anche se sono meno, lo stesso in Italia i laureati fanno più fatica a trovare lavoro.

E’ il segno inequivocabile di un paese arretrato fin nelle sue strutture più profonde, sia nel campo della produzione di beni e di servizi, sia nell’ambito della amministrazione pubblica. Per fortuna i laureati hanno comunque maggiori e migliori possibilità di collocazione lavorativa dei diplomati. Anche in questo caso l’obiettivo è evidente: aumentare il numero di laureati, specie negli ambiti tecnico-scientifici (oggi il 24,6%, in linea con la media europea).

Un incentivo potrebbe venire dall’adozione di misure e strumenti che generino occupazione in settori ad alto tassi di specializzazione, immaginando che, laddove non interviene l’iniziativa privata, sia lo Stato a entrare in gioco con le forme e le modalità utili a costruire alta occupazione e servizi ad alto contenuto scientifico e tecnologico. Come accade nei paesi Ue più attrezzati.

Il report Istat contiene un sacco di altre cattive notizie, ad esempio il permanere del divario nord-sud, in termini di diplomati e occupati, specie fra i giovani, ma anche piacevoli sorprese che danno il senso dei cambiamenti che stanno intervenendo nel paese: mentre, nella media Ue dei diplomati e dei laureati, uomini e donne sono all’incirca alla pari, in Italia le donne con almeno il diploma sono il 64,5% contro il 59,8% degli uomini; le donne laureate sono il 22,4% contro il 16,8% degli uomini. Una bella rincorsa, se si considera che una ventina di anni fa le percentuali erano invertite.

Purtroppo questo dato non pare incidere più di tanto sui tassi di occupazione femminile, il 56,1% contro il 76,8% dei maschi, più del divario medio europeo. Però le donne con diploma trovano lavoro assai più facilmente (25 punti percentuali in più), lo stesso per le laureate.

Dunque, le donne corrono, la rigidità sociale le frena, ma il progresso del paese dipende in larga misura dalla loro tenacia nell’affermarsi negli studi e poi nel lavoro. Questo fenomeno è ancora più accentuato nel sud, dove il titolo di studio aumenta la possibilità di trovare lavoro più che al nord, che si tratti di uomini o di donne poco importa. Dunque, la scuola continua a essere centrale nel disegno del futuro dell’Italia. Darsi l’obiettivo di portare tutti al diploma, investendo risorse, energie e competenze è una strada obbligata.

Forse un diverso atteggiamento del mondo della “bassa politica” e dell’”economia della povertà” – il primo tratta la scuola come palestra per battaglie ideologiche (gender, crocifisso, stranieri) a volte comodo paravento dell’assenza di visione, il secondo come serbatoio di manodopera a basso costo da addestrate a spese dello Stato – potrebbe anche aiutare i tanti che lavorano per riportare a scuola chi se ne è andato, a volte per difficoltà, a volte per solitudine, sovente per una mancata accoglienza, anticamera di un’esclusione che dura la per la vita. Un grande spreco a cui si deve rimediare.