Due episodi sono balzati di recente alle cronache, molto diversi l’uno dall’altro ma accomunati dal fatto di mettere sotto accusa pubblici ufficiali a servizio dell’ordine pubblico e della sicurezza. Mi riferisco alla chiusura delle indagini sulle presunte torture avvenute tra il 2017 e il 2019 nel carcere di Torino e all’arresto di sette carabinieri a Piacenza.
Nel primo caso abbiamo una storia che di recente è stata purtroppo raccontata varie volte. Agenti di polizia penitenziaria che, per umiliare e punire persone detenute oltre la legale punizione già in atto con la reclusione in carcere, avrebbero utilizzato forme di violenza fisica e psicologica. Varie altre procure in giro per l’Italia stanno indagando per il crimine di tortura in relazione a eventi che sarebbero avvenuti nelle carceri di San Gimignano, Monza, Santa Maria Capua Vetere.
Affinché la cultura dell’arbitrio e delle punizioni illegali in carcere venga sradicata è necessaria una profonda azione preventiva e culturale. È necessario che la polizia penitenziaria venga valorizzata nel proprio ruolo. È necessario che chi svolge un compito così sensibile sia formato adeguatamente e che si comprenda l’importanza estrema di quanto sta facendo, attribuendole il dovuto riconoscimento.
Con l’idea della sorveglianza dinamica si era provato ad ampliare l’orizzonte del ruolo svolto dal poliziotto penitenziario, non limitandolo ad aprire e chiudere cancelli ma attribuendogli la fiducia di un compito sensibile, fondato sull’intelligenza della situazione carceraria e sulla capacità di gestirla in maniera alta. Alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria sembrano non averlo compreso e chiedono che si ritorni indietro. Ci auguriamo invece che il cammino percorso non venga vanificato.
Per combattere gli abusi in carcere serve tuttavia anche un’altra profonda azione culturale: quella dello sradicamento netto dello spirito di corpo e di ogni forma di omertà. Se il poliziotto penitenziario continua a sentirsi protetto dall’immunità è perché qualcuno glielo consente.
Vedremo cosa dirà il processo quando avrà fatto il suo corso. È grave se confermerà che il direttore del carcere era a conoscenza delle violenze che accadevano nel suo istituto e non le ha denunciate. È così che le violenze si perpetuano. Lo stesso direttore dirigeva il carcere di Asti quando, come ormai accertato da una sentenza passata in giudicato, due detenuti furono sottoposti ad atroci torture. Nella sentenza si legge che “era possibile per gli agenti porre in essere tali comportamenti poiché si era creato un sistema di connivenza con molti agenti della Polizia Penitenziaria e anche con molti dirigenti”.
Quanto accaduto a Piacenza è naturalmente molto diverso, non solo perché riguarda l’Arma dei Carabinieri ma anche perché qui le presunte violenze non sarebbero state volte esclusivamente a esercitare un potere arbitrario e umiliante verso le persone in custodia, bensì anche a commettere reati volti a perseguire profitti personali. I carabinieri sarebbero anche degli ordinari delinquenti che volevano spacciare droga per arricchirsi. A questo fine avrebbero commesso torture e detenzioni illegali (il sequestro di persona dello Stato).
Anche qui, aspettiamo che la giustizia faccia il proprio corso. Possiamo notare però come gli organismi internazionali ci spieghino da sempre che la prima fase dell’arresto è la più delicata e a rischio per quanto riguarda possibili abusi. È importante che si guardi con fermezza a quanto accade nelle caserme e nelle stazioni di polizia.
Tempo fa un gruppo di avvocati ci disse di aver visto un numero impressionante di persone arrestate arrivare in tribunale per la celebrazione del processo per direttissima con segni di percosse sul volto. Non so che fondamento abbia la notizia e quindi non cito luoghi né tanto meno nomi. Ma, come ha dimostrato il caso di Stefano Cucchi, sarebbe importante controllare la fase iniziale dell’arresto. Quando Antigone chiese di poter accedere alle celle del tribunale per fare quel lavoro di monitoraggio che da oltre venti anni porta avanti in carcere, ci fu risposto che non se ne vedeva il motivo.
I fatti di Torino e Piacenza ci dimostrano che la legge che nel 2017 ha finalmente introdotto il reato di tortura nel codice penale italiano non era inapplicabile, come qualcuno sul momento ha detto. Non è certo la legge migliore che potevamo avere, ma queste imputazioni ci dicono che è uno strumento normativo senz’altro meglio rispetto al vuoto che lo precedeva. Oggi i processi si possono celebrare, senza rischi di facili impunità e prescrizioni.
La magistratura sta facendo la propria parte. È importante che la facciano altri. È importante che venga dato il segnale forte che lo Stato non sta con il potere arbitrario ma con la legge che vale per tutti. Anche e in maniera essenziale per chi indossa una divisa e rappresenta ognuno di noi. Un Paese che ha vissuto i fatti di Genova 2001 non può permettersi di non dare oggi questo segnale, se vuole lavorare a sanare la frattura tra tanti cittadini e le forze dell’ordine.
Che i vertici dell’Arma si costituiscano come parte civile nel processo per i fatti di Piacenza. E che lo faccia l’Amministrazione Penitenziaria per i fatti di Torino, affinché ogni suo funzionario sappia che la violenza non va solo non promossa ma va bandita con strumenti effettivi e pubblici quali la denuncia.