Innanzitutto è d’obbligo tributare doverosi complimenti a Giuseppe Conte che ha dimostrato, nell’arduo e complesso negoziato europeo sul Recovery Fund, doti di caparbietà e intelligenza davvero non comuni nella nostra mediamente pessima classe politica. Il risultato ottenuto non è significativo solo dal punto di vista degli interessi italiani, ma anche come passo avanti verso una concezione più solidale dell’Unione europea nel suo insieme, marcando, come ha osservato Luciana Castellina, un significativo smarcamento dalle logiche demenziali seguite finora.

Tornando per un attimo alla dimensione nazionale del dibattito, il fatto che le destre, sia nella versione grezza salviniana che in quella apparentemente più raffinata confindustriale, rosichino senza vergogna è motivo indubbiamente di soddisfazione profonda. Ciò detto, occorre appunto ribadire che si tratta appunto solo di un primo passo e la situazione resta densa di incognite e tutto l’assetto istituzionale, politico ed ideologico dell’Unione europea abbisogna di una totale ristrutturazione secondo principi effettivamente democratici e solidali.

In primo luogo nulla garantisce che non si tratti di un evento contingente, dovuto all’emergenza Covid, mentre restano intatti, seppure per il momento parzialmente inattivi, i meccanismi del passato, a cominciare dal Patto di stabilità. Notevoli insidie continuano a celarsi nelle pieghe dell’accordo raggiunto in sede europea e l’insistenza scellerata di determinati settori politici italiani sul Mes indebolisce oggettivamente l’iniziativa volta a disattivare tali meccanismi e a sventare tali insidie.

In secondo luogo restano del tutto intatte, e anzi acquistano ancora maggior rilevanza, le istanze volte ad introdurre nell’Unione una democrazia piena ed effettiva. Le perplessità del Parlamento europeo che lamenta di essere stato escluso dalla sede decisionale e protesta per i tagli a vari importanti programmi, come pure per la sordina messa alle critiche nei confronti di Orban e del governo polacco, costituiscono da tale punto di vista un segnale d’allarme che non può essere trascurato.

Se l’Europa può essere uno strumento utile, anzi indispensabile nell’attuale contesto di globalizzazione, è bene metterne le sorti in mano ai cittadini europei che oggi contano, in quanto tali, come pure in qualità di cittadini degli Stati membri, quasi niente. In terzo luogo va affrontato il tema dello schieramento internazionale dell’Unione.

Tale schieramento va adeguato alla realtà multipolare che si sta disegnando, con la decadenza costante e inarrestabile degli Stati Uniti e l’emergere della Cina popolare, che esce notevolmente rafforzata dalla pandemia, e con la quale occorre stabilire un dialogo paritario, senza remore e pregiudizi di carattere ideologico, elaborando posizioni comuni sui problemi globali che affliggono l’umanità, a partire proprio dal Covid e dalle pandemie in genere, come pure dalle impellenti problematiche di carattere ambientale, prima fra tutti il riscaldamento globale.

Occorre pertanto superare la tradizionale sudditanza nei confronti di Washington, che permane per molti aspetti inalterata, come dimostrano le vergognose sanzioni irrogate al Venezuela bolivariano, oggetto recentemente di un’altrettanto vergognosa risoluzione proprio del Parlamento europeo, o anche le esitazioni e la pavidità nei confronti dell’ipotesi di tassazione dei giganti della comunicazione, che hanno realizzato enormi profitti, ulteriormente incrementati proprio grazie alla pandemia.

Per finire, non ci si può certo illudere che i problemi dell’Italia possano essere risolti grazie all’intervento del deus ex machina europeo. I soldi che arriveranno dovranno essere destinati al beneficio effettivo del Paese, avviandone la riconversione ecologica, sociale e territoriale e investendo somme adeguate in istruzione, ricerca, sanità e cultura e ciò richiede indubbiamente la sconfitta delle lobbies che insistono a chiedere in modo petulante che i fondi siano attribuiti tutti o in massima parte a loro per realizzare grandi opere inutili come il Tav e continuare a godere di quelle rendite di posizione che hanno determinato, specie a partire dall’infausto ventennio berlusconiano, la retrocessione del nostro Paese su molti piani.

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