Nel programma originale del Movimento 5 Stelle il tema trasporti è stato declinato essenzialmente in termini di sostenibilità ambientale, e inizialmente questo aspetto era certo in opposizione alle Grandi Opere berlusconiane, viste come ambientalmente aggressive. Non era favorevole a priori al trasporto ferroviario: la grande opera-simbolo era una ferrovia, la Torino-Lione. C’è anche un ruolo importante assegnato alla democrazia partecipata, cioè alle proteste locali.
Questo disinteresse per gli aspetti funzionali del settore a favore di quelli socio-ambientali era coerente con la vicinanza a slogan di “decrescita felice” del filosofo francese Latouche, e ad atteggiamenti sostanzialmente no-global e di conseguenza antieuropeisti (cfr. la corrente di Di Battista). L’accesso al primo governo Conte, con uno straordinario successo elettorale alle elezioni politiche del 2018 (33%), ha ovviamente confermato queste scelte, che si sono tradotte in un programma di razionalizzazione delle politiche infrastrutturali, riferibile alle analisi costi-benefici (Acb) come strumento di supporto alle decisioni, promosso dal ministro Toninelli.
Di fatto era la continuità di quanto “promesso” dal precedente ministro Delrio, ma poi clamorosamente disatteso dalla scelta di definire “strategiche”, cioè non da analizzare in alcun modo, opere per 133 miliardi, cioè praticamente tutte. Tuttavia i sondaggi mostravano già nell’autunno dello stesso 2018 un calo di consensi al Movimento, che all’inizio del 2019 era sceso al 26%.
Questo fatto apparentemente cambiò la linea politica del M5S su questo tema, già dalla fine del 2018. “Apparentemente”, si è detto, perché non vi fu alcuna esplicitazione politica del cambio, il cui modo fu del tutto opaco. Infatti già alla fine del 2018 i risultati negativi della Acb sulla linea Av Milano-Genova, pur in precedenza fortemente osteggiata dai 5S, furono capovolti nella presentazione politica, in cui si dichiarò che erano da considerarsi (contro ogni evidenza) positivi. Identica sorte toccò poi alla linea Av Brescia-Padova. Rimase il “no” solo al “progetto-bandiera”, cioè non furono alterati i risultati della linea Torino-Lione (detta Tav).
Il consenso tuttavia continuò a scendere, arrivando a marzo al 21%, senza che i 5S stabilissero un nesso tra il mutamento di rotta sulle Grandi Opere e questo andamento. C’è solo da supporre che la dominanza del consenso ai 5S nel Mezzogiorno, da sempre non ostile per cultura alle opere pubbliche e meno all’ambiente, contribuì al “salto”. Certo contribuì anche la disinformazione sistematica dei media, pronti ad evidenziare i benefici delle opere (che riguardano stakeholders vocali), e mai i costi (che riguardano la totalità dei contribuenti).
Questo si concretizzò drammaticamente il 28 marzo 2019. Il ministro, in quella fatidica data, dichiarò ai tecnici incaricati delle Acb: “da oggi politicamente non posso dire di no più a nulla”. Quei tecnici furono sostanzialmente esautorati, essendo chiaro che non avrebbero certo detto dei “sì politici”. Sembra evidente che i 5S inseguivano la Lega, che cresceva rapidamente in consensi, promettendo opere (cioè soldi pubblici) a tutti.
Ma la perdita di consensi non si è arrestata comunque, e si è arrivati vicini al 16%. Non è certo che il cambio di rotta abbia contribuito alla discesa: certo non ha contribuito ad arrestarla. “Perseverare diabolicum”? No, il Movimento pare anzi essersi convinto della bontà delle sue scelte, aumentando la direzione pro-grandi opere, soprattutto al Sud, propria base elettorale.
Prima ci sono state le affermazioni programmatiche di Conte “L’Alta Velocità al Sud”, ribadite dal Piano Colao e mai corredate da un numero, nemmeno sui costi previsti. Se prese alla lettera, si tratta di costi enormi (per un’utenza prevedibile molto ridotta), e totalmente a carico delle casse pubbliche. Poi il ministero dei Trasporti si è accodato con il documento Italia Veloce, ma in modo molto vago e aperto a ogni soluzione (forse lì qualcuno ai numeri ha dato un occhio…).
Infine però il decreto Semplificazioni ha tolto ogni dubbio: i 5S, con Renzi, tutta la destra, e ovviamente Confindustria, si sono battuti contro il Pd per usare al massimo il “modello Genova” che riduce o annulla le gare ad ogni livello, fino a sostituirle con affidamenti “a rotazione” (agli amici). Più grandi opere e meno concorrenza per i costruttori. Il “partito del cemento” ha evidentemente acquisito un nuovo, convinto campione. Ora non c’è che da sperare che dall’Europa arrivino severi vincoli sull’efficienza della spesa.