Cultura

La quarta dimensione del tempo, nel romanzo di Ilaria Mainardi c’è l’America, il cinema, il racconto

Uno sfrigolante libello che pesca a mani nude nel reale chiacchiericcio, nel quotidiano, nella storia e nella cronaca statunitense per sovrapporci una propria esuberante storia di finzione con protagonista James, un brillante pubblicitario cinquantenne, irlandese d’origine ma vivente a New York, che grazie a due facchini scopre una lettera della madre finita dentro una cassapanca e rimasta lì per parecchi anni

di F. Q.

Una pisana in America. Almeno a livello letterario. Ilaria Mainardi prende gli stilemi eccentrici del romanzo americano contemporaneo/commerciale … e scappa. Infatti se leggi nelle sue note biografiche, scopri che ama, e un po’ si rifà, a Martin McDonagh (Tre manifesti ad Ebbing, Missouri), uno dei più interessanti drammaturghi di teatro e cinema degli ultimi anni, anche lui non statunitense (è inglese), ma molto “shakespeariano alla conquista di Hollywood”. Dicevamo del libro della Mainardi, La quarta dimensione del tempo (Les Flâneurs Edizioni), uno sfrigolante libello che pesca a mani nude nel reale chiacchiericcio, nel quotidiano, nella storia e nella cronaca statunitense per sovrapporci una propria esuberante storia di finzione con protagonista James, un brillante pubblicitario cinquantenne, irlandese d’origine ma vivente a New York, che grazie a due facchini scopre una lettera della madre finita dentro una cassapanca e rimasta lì per parecchi anni. Ovviamente la donna non è nel radar del figliolo da un bel po’ di tempo, ma in quella letterina, con fare piuttosto fumantino lo manda al diavolo, trasmettendogli allo stesso tempo una gran voglia di rivederlo. A James non resta che recuperare armi e bagagli e dirigersi con un Suv in Missouri assieme all’amico Gavin per riannodare i fili, veri o presunti, di un passato familiare cancellato dai ricordi per cambiare vita. Nulla di tragico però, La quarta dimensione del tempo è zeppo di riferimenti cinematografici di classe (i Monthy Python, John Cazale, Marlon Brando ma anche Andrew Dominik) e vive di una continua esuberanza nei dialoghi, di ironia nell’approccio narrativo e di una sottesa, vaga idea tragicomica dell’esistenza che spesso non rintracciamo come anelito esistenziale nella narrativa italiana.

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