SPECIALE CALCIOMERCATO - Madeleine: una data, un ricordo, un personaggio. La rubrica del venerdì de ilfattoquotidiano.it, che per l'estate 2020 sarà dedicata ai colpi estivi più o meno indimenticabili dei club di Serie A
Il tacco sinistro che tocca il pallone mandandolo a destra, tra le gambe dell’avversario mentre il corpo se ne va a sinistra. Il volto di chi ha subito quella giocata che diventa un enorme punto interrogativo, il pallone che rotola verso il fondo, l’autore della prodezza che lo riprende e lo offre al compagno che arriva in corsa e deve solo appoggiarlo in rete. Quella di Redondo all’Old Trafford nei quarti di finale di Champions 1999/2000, ai danni del povero Berg, è, senza paura di essere smentiti, una delle 10 giocate più folli e meravigliose del gioco del calcio. Perché arriva in una situazione totalmente inaspettata, con un calciatore che non fa della velocità e dunque della propensione alla fuga in dribbling la sua arma migliore, perché pensare una cosa del genere fuori casa, all’Old Trafford, in un quarto di finale, è oltre i limiti della follia e perché fare una cosa del genere dopo averla pensata li oltrepassa, quei limiti.
E con quel pezzo d’arte ancora negli occhi i tifosi del Milan, esattamente 20 anni fa sognavano. Sì, perché oltre alla follia di quella giocata Redondo, che Galliani stava provando a strappare al Real, era tanto altro e forse addirittura l’esatto opposto: la razionalità, l’eleganza, l’intelligenza nel calamitare palloni al centro del campo, dettare tempi, dipingere corridoi dove altri vedono un retropassaggio. È una sorta di dandy, Redondo, che rifiuta la convocazione ai mondiali del 1990 per laurearsi in Economia e Commercio e quella ai mondiali del 1998 perché gli viene chiesto di tagliare i capelli. Un dandy che accarezza la palla e la porta a ritmi piazzolliani, ma capace anche di assoli decisamente rock, livello Jimi Hendrix, come Berg sa bene. Povero Berg. Di quelli che ti stregano pure se non sei un esteta, pure se sei Capello, allenatore emblema della concretezza che dopo averlo avuto un anno a Madrid vorrebbe portarselo ovunque, ma invano.
E due molto sensibili al fascino dei calciatori forti sono Galliani e Berlusconi: la Serie A e il Milan nel 2000 sono ancora il gotha, nonostante i rossoneri non vivano il loro momento migliore. In panca c’è Zaccheroni, un anno prima aveva vinto anche un po’ a sorpresa lo scudetto, ma l’ultima stagione è stata così così: terzi in campionato, fuori ai gironi in Champions. La dirigenza rossonera fiuta l’occasione di prendere il miglior centrocampista al mondo e sborsa 35 miliardi di lire per accaparrarsi il calciatore seppur 31enne. È il 28 luglio quando arriva l’ufficialità: Redondo è del Milan. Il ds della Juve Moggi dirà che il suo Matteo Brighi, appena preso dal Rimini per due miliardi sia meglio dell’argentino, ma ci credono in pochi. In breve però dal sogno si passa all’incubo: Redondo in allenamento soffre, ritiene i carichi di lavoro troppo pesanti e il ginocchio gli porta continuamente problemi dopo aver messo un piede in fallo: l’infortunio però è più serio del previsto, i legamenti sono saltati e anche la riabilitazione è molto, molto problematica. È un calvario per Fernando, e anche un’umiliazione: lui, che cammina a testa alta col pallone o senza, rifiutando un mondiale pur di non scendere a compromessi, costretto a stare fuori praticamente sempre, venendo pure pagato 8 miliardi di lire a stagione. Per questo chiederà a Galliani di non percepire stipendio fino al rientro in campo.
E mentre qualcuno gli consiglia di lasciar perdere, ormai ha più di 30 anni, un palmares a cinque stelle e può andar via felice, lui non ci pensa neppure. Impiega due anni e mezzo, si sottopone a un intervento pericolosissimo e cruento, ma a dicembre del 2002 torna in campo contro la Roma, negli ultimi minuti e il pubblico lo saluta con un boato. In panchina intanto è arrivato Ancelotti e Redondo si ritaglia diversi spezzoni di gara, fino all’esordio da titolare prima in A, col Modena, poi in Champions a Mosca. Si ritaglierà 19 presenze, alzerà seppur non da protagonista la Champions vinta a Manchester contro la Juve, e da protagonista la Coppa Italia contro la Roma. L’anno dopo giocherà altre 14 partite col Milan, chiuso però dall’astro nascente Pirlo e chiuderà la carriera. Resta uno dei più grandi rimpianti per gli appassionati italiani, non solo milanisti: quel dandy dal tocco delicato e dalla sicurezza quasi presuntuosa, sfrontata, avrebbe potuto divertirsi e far divertire tifosi e compagni. Gli avversari un po’ meno a guardare la faccia di Berg.