Sono tre gli studi sui vaccini per prevenire Covid 19 che stanno entrando nella fase 3 della sperimentazione sull’uomo, ovvero quella in cui dovranno determinare profili di “sicurezza” e “protezione immunitaria”, ma non ancora l’”efficacia”. I candidati sono: il vaccino Sinovac dell’Instituto Butatan (Cina), il “mRna-1273” dell’azienda biotech Moderna (Usa), e infine il vaccino “AZD1222” di Oxford (Gran Bretagna). La pubblicazione su Lancet di quest’ultimo studio, dell’Università britannica, arriva solo 5 giorni dopo l’annuncio di entrata nella fase 3 del vaccino sviluppato negli Stati Uniti da “Moderna”. Una corsa al risultato, nella quale nessuno vuole rimanere indietro. Il vaccino britannico “AZD222”, utilizza come “vettore virale” un adenovirus geneticamente ingegnerizzato con la proteina Spike S del Sars-CoV2. È una metodica usata spesso in virologia per sviluppare vaccini in modo rapido. I risultati pubblicati sembrano incoraggianti, ma non sono definitivi. Finora, i dati sul vaccino testato dall’Università di Oxford, si basano su una platea contenuta di 1077 volontari, i profili di sicurezza sono sufficienti per entrare nella fase avanzata della sperimentazione, saranno “più di 10.000 le persone che prenderanno parte alla prossima fase delle prove nel Regno Unito”, sostiene Andrew Pollard, del gruppo di ricerca di inglese, nel briefing di presentazione. A questo arruolamento, verranno affiancati. A breve – nuovi trial con 30mila volontari negli Stati Uniti (con uno studio pediatrico), 5mila in Brasile e altri 2mila in Sudafrica.
La produzione di anticorpi – Leggendo approfonditamente il paper pubblicato da The Lancet si evince come il vaccino induca la produzione di anticorpi neutralizzanti, ma anche che “a seconda del metodo usato per misurarli, il titolo degli anticorpi è diverso – come ci conferma Antonella Viola, immunologa dell’università di Padova – è possibile che ciò avvenga perché si usano test diversi ma sarebbe meglio che si trovasse il modo di standardizzare la misurazione”. Inoltre, nello studio si legge che “in alcuni volontari ci sono anticorpi anche prima del vaccino, gli autori suggeriscono che i volontari hanno avuto la malattia senza accorgersene. È possibile ma è anche possibile che i test che usano non siano troppo specifici. È un aspetto che va chiarito – e conclude – comunque in generale i dati riportati sono incoraggianti”. La questione degli “anticorpi neutralizzanti” è centrale, non basta produrre anticorpi, è necessario valutare quanti di questi siano neutralizzanti e a quale concentrazione. Il titolo anticorpale neutralizzante “nei volontari vaccinati raggiunge un livello confrontabile a quello del plasma dei guariti, a 35-42 giorni dopo 2 dosi del vaccino – a chiarire questo concetto è Massimiliano Mazza ricercatore dell’IRST di Meldola che si occupa di anticorpi terapeutici e terapie cellulari ed, inoltre è il responsabile assieme al professor Giovanni Martinelli del progetto internazionale ACT4COVID -, mentre, se guardiamo le mediane dopo un singolo round di vaccinazione, questo riesce a indurre una concentrazione alta di anticorpi neutralizzanti in pochi individui complessivamente, per questo non si può escludere che sarà necessaria quindi una seconda dose del vaccino per ottenere una protezione efficace”.
Gli stessi autori della pubblicazione, commentano – tra le righe – i limiti dello studio “il breve follow-up finora riportato, il piccolo numero di partecipanti” e quindi “non sono facilmente generalizzabili, in quanto si tratta di un primo studio su volontari per lo più giovani e sani (ndr, l’età media dei partecipanti dei 1077 volontari è di 35 anni), indurre risposte vaccinali protettive nei giovani è già una sfida. Indurre le stesse risposte nelle persone che sono più vulnerabili a causa della vecchiaia, dell’obesità, di malattie o di trattamenti immunosoppressori, è molto più difficile” ). La durata della risposta anticorpale e l’immunogenicità negli anziani o altri gruppi specifici, come quelli con comorbidità, sono le questioni centrali da dirimere. Questi sottogruppi sono spesso esclusi dagli studi clinici, ma comprenderne le risposte è essenziale. Altro argomento è quello riguardante i bambini, anche qui dovranno essere fatte valutazioni in merito, ma solo una volta che negli adulti saranno raccolti dati di sicurezza solidi.
Per testare il vaccino 32.665 persone sono disposte a farsi inoculare il virus – “In questa fase non è possibile dimostrare l’efficacia del vaccino perché i soggetti vaccinati sono pochi e non sono esposti all’infezione come anche i controlli”, a sostenerlo è Antonio Cassone, già Direttore di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità e membro dell’American Academy of Microbiology, d’altronde “questa non è stata misurata e non è dovuta nel protocollo della fase 2 farlo. Sono studi che si fanno in fase 3”. È necessario, quindi, aspettare i risultati che si avranno sulle prossime platee di volontari, la fase 3 dovrebbe chiudersi nel terzo trimestre di quest’anno, la distribuzione ipotetica su larga scala nella primavera del 2021. La reale protezione sulla popolazione sarà definibile solamente al momento del contatto con il virus vero e proprio. Attualmente, per testare l”efficacia” del vaccino, esistono solo due possibilità: aspettare che le persone vaccinate siano esposte casualmente al Sars-Cov2, o esporle in modo artificiale al virus, cosa che non è auspicabile (e non etico) in assenza di un trattamento farmacologico efficace (nel caso in cui si aggravasse il paziente). Nonostante ciò, è nato un movimento di pressione che ha raggiunto ben 32.665 volontari disposti a farsi inoculare il virus Sars-Cov2 per accelerare lo sviluppo del vaccino, tra i fondatori di 1DaySooner ci sono epidemiologi, ricercatori e dottorandi della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Harvard, Oxford. Anche Adrian Hill, Direttore del Jenner Institute, sostiene il movimento “Speriamo di fare challenge trials (prove di sfida con virus) entro la fine dell’anno”, va anche detto che secondo Sarah Gilbert, docente di vaccinologia, Jenner Institute e dipartimento di medicina clinica di Nuffield (Oxford), “La difficoltà che abbiamo e che tutti gli sviluppatori di vaccini hanno nel provare a fare un vaccino contro questo particolare virus, è che non sappiamo quanto deve essere forte la risposta immunitaria. Quindi non possiamo dire, solo guardando le risposte immunitarie, se questo proteggerà le persone o no. L’unico modo che scopriremo è fare le prove di fase tre di grandi dimensioni”.
L’ipotesi che il vaccino possa aumentare la gravità di Covid 19 – Esiste anche un altro aspetto, che va tenuto in considerazione, citato da Nature, è bene chiarire che è solo una proiezione non verificabile allo stato attuale, ovvero la possibilità che un vaccino aumenti la gravità di Covid 19 che è una malattia ancora poco conosciuta e diventa devastante a causa di risposte immunitarie inappropriate del nostro organismo, eccessive e/o inadeguate: è la tempesta di citochine (le nostre difese aumentano in modo sproporzionato), a fare più danni del virus stesso. Di conseguenza, molti trattamenti farmacologici adottati sono finalizzati a rallentare, e non tanto a stimolare, le risposte immunitarie/infiammatorie (Tocilizumab, desametasone, e altri immunomodulanti ecc). Uno dei rischi, secondo Nature, è quello di indurre anticorpi in grado di legarsi ai coronavirus, addirittura facilitando l’ingresso del virus nelle cellule o la loro infezione, invece di bloccarla (antibody-dependent enhancement). Questo fenomeno è stato osservato con molti virus, inclusi i coronavirus. Si sospetta, purtroppo, che possa quindi verificarsi anche con il Covid19, è quindi necessaria molta prudenza, “la possibilità di una Antibody-dependent enhancement che significa aumentata possibilità di malattia dovuta agli anticorpi, esiste anche per questo virus – continua Antonio Cassone – chi propone l’approvazione del vaccino dovrà riportare dati e ragionamenti che dimostrano che questo evento è remoto o trascurabile per il loro vaccino”.
Infine, nelle conclusioni dell’editoriale di Lancet correlato al vaccino di Oxford, due esperti della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health – Naor Bar Zeev, docente di salute internazionale e William Moss, docente di epidemiologia – sono convinti che le implicazioni sociali legate all’opinione pubblica saranno determinanti perché “il successo dei vaccini Covid 19 dipende dalla fiducia della comunità nelle scienze dei vaccini, che richiede una valutazione completa e trasparente del rischio e una comunicazione onesta dei potenziali danni”.