Piccoli “Freaks and Geeks” crescono. Judd Apatow (40 anni vergine) colpisce ancora. Il re di Staten Island – nelle sale italiane dal 30 luglio 2020 – è una tragicommedia minimale sul tema “bamboccioni”, con deviazione sul disturbo mentale, interpretata da un celebre stand-up comedian del Saturday Night Live, Pete Davidson. Una fusione Attore e Personaggio quasi totale (Davidson è nato a Staten Island, ha pure il morbo di Crohn e il padre pompiere morto come lo Scott Carlin del film) dove invece di far furoreggiare il protagonista in una specie di one man show gli si costruisce una dimensione narrativa corale attorno.
Scott è un ragazzone di oltre 25 anni che vive ancora con sua mamma Margin (Marisa Tomei) e una sorella diciottenne in procinto di trasferirsi al college. Il papà pompiere è morto in un incidente sul lavoro e il suo ricordo “eroico” aleggia come un fantasma bloccante sia per l’emancipazione di mamma che di Scott. Quest’ultimo è una figura da fumetto di difficile traduzione socio-culturale in Italia. Uno “svalvolato” sarcastico verso gli altri ma sfigato, tutto tatuaggi (orribili ed elementari), canne, occhiaie, antidepressivi e apparente inadeguatezza a stare al mondo. Scott è pudico nella sua asocialità e teneramente comico nel suo statizzare l’esistenza: vuoi che sia nel ripetere di continuo gli stessi passatempi con gli amici altrettanto svalvolati (ovvero dei chillum pantagruelici), nel concretizzare una vera unione con la scopamica del cuore (Bel Powley, fin troppo kitsch per l’ambientino freak dei ragazzi del gruppo), o nell’uscire finalmente di casa provando a trovare un lavoro che lo renda realmente autonomo (Scott fa il cameriere, sia mai, però non è proprio la sua professione).
La scossa al solito tran-tran la darà l’irrompere del pompiere Ray, papà di un bambinetto che Scott ha tatuato maldestramente come è solito fare con le sue volontarie vittime. Un passo indietro, perché nel tatuare selvaggio di Scott sta un po’ il tono e il cuore della comicità leggera e nonsense che soggiace nel protagonista come nei personaggi che interagiscono con lui. Scott si esercita di continuo su braccia, gambe e schiene di amici e conoscenti con la sua penna e i suoi aghi. Solo che realizza disegni penosi. Quando uno degli amici, un afroamericano, mostra il tatuaggio di Obama che gli ha fatto sulla spalla, un ritratto che non somiglierebbe nemmeno a Bill Clinton, si fatica a trattenere le risate. Scott non ha di certo questa vocazione, però impulsivamente si esercita su chiunque gli capiti a tiro, con una certa involontaria dissennatezza.
Sotto i suoi aghi ci finisce anche il figlio di Ray che però alla prima trafittura sulla pelle scappa piangendo. Ray si presenterà così infuriato a casa di Scott per farsi pagare i danni, ma quando alla porta aprirà mamma Margin sarà colpo di fulmine tra i due. Inutile dire che Scott, gelosissimo di mamma e della memoria del padre, farà di tutto per ostacolare il corteggiamento di Ray a sua madre. L’aspetto più curioso dello script firmato da Apatow e Davidson stesso è che Scott non deve figurare come polo attrattivo dell’attenzione dello spettatore. Piuttosto è come gli altri comprimari lo trattano sopra le righe (la madre che gli chiede di parlargli in privato poi gli chiude la porta sul naso), mentre lui subisce tutto quasi fosse carta assorbente, a delineare la fortuna comica del film. Apatow in cabina di regia taglia e cuce, talvolta allunga un po’ il brodo (tutto il sottofinale pesa alquanto), ma comunque centra una commedia gentile, mai volgare, pur sempre dentro con mani e piedi alla sessualità di ogni età e alla profonda intimità dei caratteri. Scott in lingua originale viene continuamente definito “weird”, “freak” e perfino “(fucking) smuck”. A voi una traduzione consona che non riusciamo a trovare. Dimenticavamo: Marisa Tomei è una mamma (milf?) da urlo che qui recita anche con affettuosità materna, incurvando perfino le gambette (invece ancora da ragazzina) come fosse per davvero una ultracinquantenne. Distribuisce Universal.