“Il gip Patrizia Todisco ha firmato il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto e misure cautelari per alcuni indagati nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici Ilva”. Alle ore 14.14 del 26 luglio 2012, l’Ansa conferma quanto è nell’aria da giorni, con i blocchi degli operai lungo la statale Appia e nel cuore di Taranto. Iniziano 8 anni di promesse evaporate, escamotage giuridici, licenziamenti. Otto anni di piani di rilancio mancati e svolte ambientaliste lasciate in un cassetto, otto anni persi al termine dei quali la più grande acciaieria d’Europa, cuore pulsante della siderurgia italiana e “mostro” tentacolare in grado di soffocare una città, è agonizzante. Questa è la storia di un’occasione persa, insieme a migliaia di posti di lavoro sfumati e decine di vite spezzate. La storia di un’opportunità andata in fumo, dispersa come “minerale” nel vento. (a cura di f.c. e a.t.)
Il decreto venne notificato nel pomeriggio, quando gli operai avevano già isolato la città perché il sequestro dell’Ilva fu un provvedimento annunciato da quanto stava avvenendo da settimane. Per quaranta giorni i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce avevano filmato gli sbuffi dell’acciaieria più grande d’Europa, le nuvole di minerale, come chiamano a Taranto le polveri di ferro e carbone che viaggiano verso il quartiere Tamburi dai parchi dove vengono stoccate in attesa di diventare acciaio. Le tute blu avevano capito: quella mattina del 26 luglio 2012 uscirono dai cancelli dell’impianto e bloccarono tutto. In duemila all’inizio, per poi quadruplicarsi, sotto il sole rovente dell’estate pugliese portarono la loro preoccupazione lungo la statale Appia, occupando il ponte girevole che tiene insieme la città dei due mari e quindi il municipio, dov’era di casa il sindaco Ezio Stefano. Fu una sua denuncia a far partire l’inchiesta coordinata dal procuratore Franco Sebastio che portò il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco a firmare l’ordinanza di custodia cautelare per i vertici della fabbrica, ad iniziare dal patron Emilio Riva, e a disporre il sequestro dell’area a caldo sposando la perizia nella quale i consulenti sostenevano che l’Ilva avesse provocato per anni “malattia e morte”: 386 decessi, misero nero su bianco, dando un profilo a decenni di gestione del “mostro”. Il processo di primo grado è ancora in corso mentre continuano i decessi sospetti, tra i bambini e tra gli adulti. E l’aria, la terra, il verde e il mare di Taranto non sono ancora al sicuro.
E Clini disse: “Standard europei in 4 anni” – Eppure il ministro dell’Ambiente Corrado Clini impiegò poche ore per dirsi convinto che il siderurgico avrebbe potuto “allinearsi agli standard e le indicazioni dell’Ue in 4 anni”. Fu la prima di una orda di dichiarazioni smentite dal tempo. Otto anni dopo il disastro ambientale argomentato dai pubblici ministeri è ancora un’ipotesi, mentre la fabbrica si è consunta e gli impianti viaggiano ai minimi storici, perdendo quote di mercato e gli addetti sono passati da oltre 15mila a 10.700 nominali, perché tra cassa integrazione pre e post Covid sono in realtà a malapena la metà. Senza tuttavia far scolorire la dicotomia di una città – stretta tra l’arsenale della Marina Militare e l’ex Italsider – sintetizzata con la forza del dialetto in una strofa del cantante reggae tarantino Salvatore Friuli: o fatìe all’Ilva o ve au militar, o muer p’a patria oppur p’ lu mineral. Non c’è ancora nessun giudizio su quel “ambiente svenduto” nell’era della famiglia Riva, la bussola del futuro è nelle mani del governo per tentare di aggirare l’austerity occupazionale dettata dal nuovo padrone ArcelorMittal e una fetta di tarantini è tutt’oggi ancorato a quella scelta di sempre tra il passaggio del testimone di padre in figlio nell’acciaieria o un arruolamento nelle forze armate.
Sei governi, quasi un decennio in fumo – Otto anni andati in fumo in cui sono avvicendati sei governi. Da quello di Mario Monti, in carica nel giorno spartiacque di questa storia, fino ai due guidati da Giuseppe Conte passando per Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Buona parte di loro ha provato a bilanciare diritto alla salute e salvaguardia del lavoro a colpi di decreto. Nella gestione della fabbrica si sono alternati un garante, un amministratore straordinario, tre commissari, ma le promesse snocciolate anno dopo anno sono sistematicamente andate spegnendosi trascinando nello stesso destino la forza della fabbrica, senza che nulla cambiasse sotto il profilo di bonifiche miliardarie, ancorate al palo, e con miglioramenti ambientali per lo più legati ai livelli produttivi più bassi. Ilva produceva oltre 8 milioni di tonnellate all’anno di acciaio, ora arriva a stento a 5. La prima pezza prova a metterla proprio Clini: con un decreto sterilizza almeno in parte l’azione dei magistrati perché consente all’Ilva – nonostante il sequestro fosse senza facoltà d’uso – di produrre per 36 mesi in attesa di adeguarsi alla nuova Autorizzazione integrata ambientale. A vigilare avrebbe dovuto esserci un “garante”, nominato dal presidente della Repubblica, ma tutto sfuma con il governo Letta.
Da Bondi alla gara per la vendita – Il successore del professore bocconiano sceglie la strada del commissario straordinario. La scelta ricade su Enrico Bondi, che durante l’era Riva era stato amministratore delegato dell’Ilva. L’uomo che risanò Parmalat inciampa sul ruolo di alcol e sigarette come concause dell’aumento di tumori, ma il suo piano per il rilancio del siderurgico, visto con le lenti della storia, resta un’incompiuta tanto green quanto ambiziosa che ciclicamente torna come opzione sul tavolo. A fermare il progetto dei forni elettrici a gas con l’uso del preridotto è sempre la politica. Il governo Letta viene giù con lo “stai sereno” di Renzi, che si insedia a Palazzo Chigi e silura il commissario. Il suo posto si scinde in tre con l’arrivo di Pietro Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. Nel 2015 l’accensione degli impianti viene blindata e inizia a prendere forma l’assetto odierno. Nel giugno di cinque anni fa, Alessandro Morricella, 35 anni, muore dopo essere stato colpito da un getto di ghisa dell’Altoforno 2: l’impianto viene sequestrato perché privo dei dispositivi di sicurezza, ma un nuovo blocco della produzione viene scongiurato da un altro intervento legislativo. Nello stesso periodo nasce lo scudo penale, che diventerà paravento per chi gestisce l’Ilva e allo stesso tempo un’arma da brandire per i nuovi padroni. È in quei mesi che inizia la caccia all’acquirente. L’iter del bando di gara viene seguito dal ministero dello Sviluppo Economico, guidato prima da Federica Guidi e poi da Carlo Calenda. Sull’Ilva mettono gli occhi due cordate: una con capofila ArcelorMittal affiancata dal gruppo Marcegaglia e Banca Intesa, l’altra capitanata da Jindal con Cassa depositi e prestiti, Arvedi e la finanziaria del patron di Luxottica, Leonardo Del Vecchio.
Vince ArcelorMittal, grazie al portafoglio – Le regole sono chiare: vale molto l’offerta economica, assai meno il progetto industriale. Una visione che nel giugno 2017 porta ArcelorMittal a vedersi assegnata l’acciaieria a un prezzo di 1,8 miliardi di euro, circa 600 milioni in più del concorrente che tenta un rilancio in extremis non accettato sulla base di un parere dell’Avvocatura di Stato. Tra acquisto e investimenti, il colosso con sede in Lussemburgo mette sul piatto quasi 4 miliardi. Lo scenario industriale dei vincitori viene bocciato dagli esperti che lo definiscono “incoerente su investimenti e volumi di produzione”, come svela Ilfattoquotidiano.it pochi giorni prima dall’assegnazione da parte del ministero. “L’aggiudicazione risponde a una valutazione complessiva di robustezza dell’offerta in termini finanziari e industriali”, esulta il ministro per il Mezzogiorno Claudio De Vincenti. “Era la migliore offerta, nessun lavoratore sarà licenziato”, l’assicurazione di Calenda. Il ministro resta in sella ancora per un anno, durante il quale non riuscirà a perfezionare l’accordo sui livelli occupazionali tra azienda e sindacati, a causa dell’opposizione di questi ultimi. I mesi a cavallo tra il 2017 e il 2018 sono un altro snodo importante.
Chiusura o muerte, la giravolta a Cinque Stelle – Le elezioni politiche sono alle porte e il M5s picchia duro sulla gestione del dossier. La soluzione pentastellata è radicale. Dallo “smantellare e bonificare” dell’europarlamentare Rosa D’Amato alla “riconversione industriale”, promessa da Luigi Di Maio, la posizione è netta. Il risultato nelle urne anche: a Taranto il Movimento sfiora il 50% dei voti ottenendo un’indicazione chiara. Ma l’azione di governo con la Lega è di tutt’altro segno e viene gestita da Di Maio, alla guida dello Sviluppo Economico. È lui a seguire il closing dell’intesa tra ArcelorMittal e sindacati, firmata nel settembre di due anni fa, che prevede 10.700 occupati e zero esuberi alla fine del piano ambientale nel 2024. Una prima testimonianza di quello che il fronte ambientalista tarantino, tanto variegato quanto all’epoca vicino al Movimento, percepisce come un tradimento, perché sintomo di una mancanza di volontà di procedere con la chiusura dell’acciaieria, che a novembre 2018 passa sotto la gestione dei Mittal con il lasciapassare del Mise, impermeabile alle critiche grazie a un parere dell’Avvocatura di Stato sul “delitto perfetto”, come i Cinque Stelle definiscono l’assegnazione. Le mani, sostengono, sono legate. E anche sull’abolizione dell’immunità penale il percorso è incerto e tortuoso: con il decreto Crescita viene eliminato, con il decreto Salva-Imprese torna in vita, ma limitata ai problemi ambientali e strettamente collegata ai tempi previsti dal piano ambientale e infine, durante la conversione in legge del decreto Imprese, viene stralciato.
Fuga e retromarcia di Mittal – ArcelorMittal, rimasta senza protezione sotto il profilo giudiziario, allontana l’ad Matthieu Jehl e ingaggia Lucia Morselli. L’arrivo della manager che gestì l’infuocata battaglia dell’Ast di Terni è un segnale per lavoratori, sindacati e governo: Morselli, che guidava la cordata perdente e ora è dall’altra parte della barricata, è nota per la sua fermezza durante le ristrutturazioni aziendali. L’accoppiata con l’addio all’immunità penale fa presagire nuove nubi su Taranto. Vista dal lato del “padrone”, infatti, lo scudo servirebbe ancora perché in 7 anni la fabbrica acquistata dal colosso franco-indiano è stata tutto fuorché ammodernata e portata su standard ambientali e di sicurezza all’avanguardia, come dimostra il braccio di ferro sull’Altoforno 2 a oltre quattro anni dalla morte di Morricella. Così l’abolizione diventa un piede di porco – una “scusa” la chiamerà la procura di Milano – per provare a far saltare il banco. Arcelor, che ha già tradito la promessa di non chiedere la cassa integrazione per lenire problemi legati all’andamento del mercato, annuncia di volersene andare. Siamo nel novembre dello scorso anno e l’Ilva è di nuovo sull’orlo del precipizio, con Mittal che perde 100 milioni di euro al mese e le prova tutte per riconsegnare le chiavi del siderurgico. Forzando la mano al punto da avviare lo spegnimento degli altoforni, con il rischio di danneggiare in maniera irreparabile l’impianto. Così nello stabilimento torna a bussare la Guardia di finanza e scattano le indagini delle procure di Taranto e Milano. Le accuse sono pesantissime: l’ipotesi è quella di una “crisi pilotata” per lasciare solo “macerie”. La proprietà dell’impianto è ancora in mano commissariale, i Mittal di fatto solo affittuari e di fronte al giudice civile di Milano, Claudio Marangoni, vengono accusati dalla triade che guida Ilva in amministrazione straordinaria di aver ordito un “disegno illecito” per “distruggere l’acciaieria ed eliminare un concorrente” dal mercato europeo dell’acciaio. Un faticoso compromesso frena l’addio di ArcelorMittal e il 4 marzo viene siglata una nuova “pace” che prevede l’ingresso dello Stato come partner finanziario e la trasformazione, almeno in parte, della produzione con la tecnologia dei forni elettrici.
Il Green Deal, l’ultima chance – Il colosso ha un’ultima via d’uscita: se i dettagli non verranno definiti entro novembre 2020, potrà comunque andarsene pagando una penale di 500 milioni di euro. I sindacati lamentano di rimanere sempre ai margini e tracciano la linea invalicabile di qualsiasi discussione: “L’accordo sindacale del settembre 2018 – ripetono Fiom, Uilm e Fim – è l’unico che esiste”. Ma gli acquirenti non sembrano volerlo rispettare. Dopo l’abolizione dell’immunità, la crisi economica innescata dal Covid diventa la nuova scusa perfetta per presentare un nuovo piano lacrime e sangue: 5mila operai in meno tra licenziamenti e mancato reintegro di chi è sotto l’ombrello dell’amministrazione straordinaria. Il governo prova a parare il colpo e gioca di sponda con l’Unione Europea, interessata a un maquillage verde dell’Ilva, per spingere forte sui forni elettrici e pensa all’idrogeno per un futuro di là da venire. Il piano, certamente suggestivo e che affonda le sue radici ancora nell’idea di Bondi di sette anni fa, presenta però limiti sotto il profilo occupazionale, oltre a necessitare di almeno due anni e 2 miliardi di investimenti. Intanto ArcelorMittal fa ricorso alla cassa integrazione in maniera massiccia, le bonifiche restano sulla carta e dopo quasi un decennio l’Ilva sbuffa sempre meno, avviandosi verso un 2020 da meno di 4 miliardi di tonnellate di acciaio prodotte. L’acciaieria più grande d’Europa, che sembrava avere la forza della dinamite e ha rifornito le migliori filiere italiane, è un arnese agonizzante a un passo dal tossire per l’ultima volta sul quartiere Tamburi prima di spegnersi tra occasioni sprecate, illusioni ottiche, inerzia e speranze tradite.
Twitter: @cicciocasula e @andtundo