Quando Tanja lascia Eduard, Eduard Limonov, usa già la cocaina, beve champagne, proletaria di lusso, a New York, non ha un book, vuole fare la modella, il suo ambiente rovina in intermediari puttanieri e stanzette umide e giallognole, ha una piega amara sul volto, volto immacolato, la pelle nitida come una ceramica preziosa e appena ferita. La bellezza è una sconfitta. Non sempre è un’arma. Spesso lo è tuttavia. Tanja abbandona Limonov per un fotografo francese, con un loft sulla Spring Street.
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La bellezza non significa che qualcuno ti ami, quindi. Una deduzione sicura e incontrovertibile. Lo spieghi a Lucia, seduta sulla panca del grande parcheggio. Quanti anni hai, le chiedi. Sono vecchia, ti dice. E guarda il suo uomo, il polacco posteggiatore abusivo, con un cappellino in testa da giocatore di basket. Invece sembra un hooligan. O uno straccione ucraino con un gran talento nelle faccende amorose, cioè uno che ci sa fare, sì insomma, sì.
Beve. Si ubriaca, finisce a russare nei sottopassaggi di una piccola città di provincia, luridi come orinatoi. Ti viene da pensare a Pietro. O agli androni marci raccontati da Brandys. Tiri fuori sempre le stesse storie. Avevi 25 anni.
Sali le scale di corsa, uno, due, tre piani, un uomo è dietro di te, barcolla, cadrà, sarà il solito trambusto. Il poliziotto del secondo piano sarà furioso, urlerà: fate sempre casino, accidenti a voi. Il condominio ospita famiglie di estrazione medio borghese. La signora del piano rialzato ti chiama “la zingara”. Eccola, arriva la zingara e quell’altro delinquente, non si vive più, mannaggia a voi. Il professore dalla cima della rampa osserva infastidito, vorrebbe chiudersi dentro, la creaturina gli raccomanda dal suo letto: no, lascia, per favore, lascia aperto, oggi ricevo, per favore. I poveri. I diseredati della terra.
Riceve il mondo franato dei perseguitati, gli eroi capovolti. I tuoi modelli. Un modo narcisistico di intendere la rivoluzione. La tua rivoluzione imbellettata, non dimentichi mai il rossetto sulle labbra, corri ma indossi scarpe inopportune, con un piccolo tacco quadrato. Sei in pericolo, ma abiti vesti antiche e pretenziose. Vai a raccogliere quell’uomo finito sotto gli alberi, sui marciapiedi, in pieno giorno. Sei orgogliosa, le spalle dritte, il mento al cielo. E le tue gambe sono forti, sei veloce. A volte sei “la puttana di Albania”.
Limonov diceva che i dissidenti non hanno alcuna relazione con gli affari meschini o quotidiani della gente, rappresentano se stessi, e la casta dentro la casta, la nomenklatura che ne osteggia un’altra. I veterocomunisti che hai conosciuto erano l’alternativa nazionalista. Il nazionalismo con ragioni etiche tutte da verificare, utili balle per bere fino a morire. Lezione che apprendi quasi subito, in un’orda alcolica di dimensioni epocali. Ci scriverai romanzi, meglio che i trattati a cui vorresti ispirarti.
Arrivi in casa della creaturina, non hai fiato, l’ubriaco arranca ancora tra i piani. C’è un subbuglio di indignazione, mormorii, imprecazioni sfuggite al cavaliere del primo piano, interno 1. Portatrice di disordine, tu mite e ridondante gentilezza, di quella mitezza fasulla che deborda in istinto e ingovernabilità. E nessuno ti amerà mai, forse, nemmeno se strappi i vestiti di dosso, con la rabbia, con tutta la rabbia che disconosci all’istante. Tu non sei quella. Nessuno ti amerà, forse, lo dico io a te oggi. È vero. Forse. Nemmeno io da qui riuscirei, perché non ti conosco.
Il professore ti lascia entrare, tu sei una specie di catapulta di guai. Ti riprende bonariamente mentre tu ripari dalla creaturina spaventata e eccitata in fondo. “Allora? Quando ti stancherai di sto casino eh?”. Non c’era mai pace. Non c’è mai pace, borbottava il professore. E invece, sai, era la pace, il disordine, le tue gambe veloci, le rampe, il mormorio degli astanti. Alla fine, alla fine di tutto ne avrebbero annunciato appena alcuni indizi. Li chiamerai indizi di eternità.
Sedevi sul letto, guardavi la creaturina, avevi molta speranza. Lei ti sorrideva, la stanza in penombra, la radiolina accesa, sulle frequenze di una stazione di preghiere. Pregava. Era una conversione. Lo sai? Te ne accorgevi? Questo Dio era sempre più vicino. Ma non dove pensavi di trovarlo, non nell’irreprensibilità. No. Allora eri confusa.
La creaturina ti diceva: non disperare, preghiamo. Cosa avresti fatto un giorno senza di lei, senza tutti loro? Avresti preferito morire che lasciarli tutti.
E li hai lasciati tutti. E sei sopravvissuta. Se può chiamarsi sopravvivere, vivere per far finire il giorno, chiudere la pratica. A volte, prima di dormire, ti sembra di esser felice, di avere ancora qualcosa, l’amore di qualcuno. Certe volte, senti alle orecchie ancora la vocina: mah, va bene, coraggio. Una vocina. Poi riesci a dormire e non fai molti sogni. Quanti anni hai?
(continua)
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