“Il gip Patrizia Todisco ha firmato il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto e misure cautelari per alcuni indagati nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici Ilva”. Alle ore 14.14 del 26 luglio 2012, l’Ansa conferma quanto è nell’aria da giorni, con i blocchi degli operai lungo la statale Appia e nel cuore di Taranto. Iniziano 8 anni di promesse evaporate, escamotage giuridici, licenziamenti. Otto anni di piani di rilancio mancati e svolte ambientaliste lasciate in un cassetto, otto anni persi al termine dei quali la più grande acciaieria d’Europa, cuore pulsante della siderurgia italiana e “mostro” tentacolare in grado di soffocare una città, è agonizzante. Questa è la storia di un’occasione persa, insieme a migliaia di posti di lavoro sfumati e decine di vite spezzate. La storia di un’opportunità andata in fumo, dispersa come “minerale” nel vento. (a cura di f.c. e a.t.)

Diverse generazioni, una sola fabbrica. Prima l’Italsider, poi l’Ilva e ArcelorMittal. Alcune delle famiglie di Taranto sono dentro lo stabilimento ionico fin dalla sua nascita. “Direi prima, io proprio l’ho costruita”, precisa con orgoglio Nicola, classe 1932. Nato e cresciuto nella città vecchia da una famiglia di pescatori, è uno dei tanti metalmezzadri del mare, “il pescatore che si fece operaio” come lo definì Fulvio Colucci in uno splendido racconto sulla Gazzetta del Mezzogiorno.

Nicola è uno di quelli che ha conosciuto il mare all’età di 5 anni: con le nasse costruite col giunco usciva in mare nella piccola barchetta insieme all’uomo che anni dopo diventerà suo suocero. Cefali, orate, spigole: quel mare offriva di tutto nella metà del Novecento. Ricco grazie alle tante sorgenti di acqua dolce che hanno garantito un sapore unico alle cozze diventate famose ovunque. Ogni notte, coi remi sulla spalla, usciva in mare: “Era la mia libertà, la mia salvezza in ogni momento”, ricorda con nostalgia. “Qualunque problema avessi, a casa, con le persone, in famiglia, con i soldi… il mare mi aiutava sempre. Ma dovevi aver paura del mare. Non si scherza”.

Il mare da 88 anni è la sua casa. Lo è stata anche quando, nei primi Anni ’60, fu assunto dalla ditta che doveva costruire a Taranto il quarto polo siderurgico italiano: “Quando lavoravo nei cantieri c’era un capo di Genova. Gli dissi: ‘Finalmente un po’ di lavoro pure per noi’. E lui mi rispose: ‘Quale lavoro, giovano’? Questa è tutta morte’. E io non lo capivo. Nemmeno quando siamo stati presi in fabbrica, l’avevo capito”. Quando nel 1987 è andato in pensione, Nicola ha ricordato quelle parole: “Di tutti quelli che erano stati assunti con me, solo io ero rimasto vivo. Gli altri erano tutti morti”. La sua salvezza, ripete instancabile, è il mare: “Mi regolavo coi turni che avevo: appena ero libero prendevo la barca e andavo in mare. Quello mi ha salvato”.

Nicola non ha mai concluso la seconda elementare: non ha idea di cosa significhino le parole perizia, epidemiologia, diossina. “Là si lavora e col lavoro si campa”. La sua famiglia ha campato grazie alla fabbrica. Anche suo figlio Umberto, oggi sessantenne, è stato per tanti anni operaio dell’Italsider. È andato pensione qualche anno fa, dopo lunghi periodi di assenza: “Un giorno mentre giocavo a pallone con gli amici – racconta – ho avuto un malore: quando mi hanno portato in ospedale mi hanno detto che i miei reni non funzionavano”. Anni difficili, quelli della dialisi. E poi la speranza: “Mi ha salvato mio padre: mi ha dato uno dei suoi reni”. Nicola si commuove: “Quando decisi di essere il donatore, qualcuno mi venne a dire di stare attento: come facevo a dire a mio figlio che dovevo stare attento? Avevo paura, ma ne avevo di più quando pensavo alla vita di Umberto”.

Nonostante tutto, nonostante anche altri parenti passati dentro l’acciaieria, croce e delizia di una città e della loro famiglia, Nicola non riesce a bocciare il siderurgico fino in fondo: “Sì, è giusto che non deve inquinare, ma tu mi dici tutti questi ragazzi di Taranto dove devono andare? Il governo deve mettere le cose a posto, non gli operai”. Una coscienza di classe quasi svanita. Ribatte a ogni rilievo che viene mosso: “Volete chiudere l’Italsider, dovete prima trovare un altro lavoro a tutti quelli che sono assunti”. Si infervora, mentre i parenti lo guardando sorridendosi a vicenda. L’uomo di mare e acciaio non si batte facilmente, loro lo sanno bene. “Non perdiamo troppo tempo: se trovano un lavoro ai ragazzi, il governo può fare quello che vuole. E mo fatemi riposare, ché domani mi devo alzare presto e prendere la barca”.

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