“Il gip Patrizia Todisco ha firmato il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto e misure cautelari per alcuni indagati nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici Ilva”. Alle ore 14.14 del 26 luglio 2012, l’Ansa conferma quanto è nell’aria da giorni, con i blocchi degli operai lungo la statale Appia e nel cuore di Taranto. Iniziano 8 anni di promesse evaporate, escamotage giuridici, licenziamenti. Otto anni di piani di rilancio mancati e svolte ambientaliste lasciate in un cassetto, otto anni persi al termine dei quali la più grande acciaieria d’Europa, cuore pulsante della siderurgia italiana e “mostro” tentacolare in grado di soffocare una città, è agonizzante. Questa è la storia di un’occasione persa, insieme a migliaia di posti di lavoro sfumati e decine di vite spezzate. La storia di un’opportunità andata in fumo, dispersa come “minerale” nel vento. (a cura di f.c. e a.t.)
“È bellissimo passare dalla cultura dell’acciaio a quella per i giovani”. Vincenzo de Marco ha 44 anni ed è uno dei tanti ex operai dell’Ilva di Taranto che lo scorso anno ha scelto di accettare l’incentivo all’esodo e lasciare la fabbrica. A Grottaglie, piccolo comune della provincia famoso per le sue ceramiche, Vincenzo, scrittore e poeta, ha dato vita a “Casa Merini”, un caffè letterario.
La libertà di Vincenzo – “Il solito bar non l’avrei aperto: questo è prima di tutto una libreria, è un’agorà artistica per tutti, specie se per i giovani: chi scrive, disegnare, fotografa qui può esporre, può diffondere la sua arte. Qui trovano davvero una casa”. La sua vita in fabbrica è cominciata nel 2000: lavorava nell’Altoforno 4, il reparto in cui il 17 settembre del 2016 morì Giacomo Campo. “L’idea di Casa Merini? Beh Alda Merini è la mia poetessa preferita e ha un profondo legame d’amore con Taranto dove visse per un po’ di tempo sposando Michele Pierri”. Il ricordo della fabbrica non è cancellato: “Oggi faccio molti più sacrifici, è più difficile del posto in fabbrica con lo stipendio, ma ora sono libero. Sono davvero rinato a 44 anni”.
Marco, dai parchi minerali al bancone – Anche Marco Viola, dopo 25 anni in fabbrica ha scelto di cambiare vita. Un passato da calciatore, con presenze in Serie C, Marco ha varcato per la prima volta i cancelli della portineria D, l’ingresso dei dipendenti Ilva, nel 2005. Lavorava nei parchi minerali, in mezzo alle montagne di carbone e ferro che in quegli anni raggiungevano altezze impensabili, con il vento che trasportava ogni anno centinaia di tonnellate di quelle polveri nel quartiere Tamburi. In fabbrica Marco è stato per tanto tempo delegato sindacale: prima nella Fiom Cgil, poi nel Fim Cisl e infine con l’Usb. “Non vedevo nessuna forma di reazione né negli operai né nel sindacato: solo Usb negli ultimi anni si sta muovendo e mi ha fatto ricredere. Noi sindacalisti – racconta a ilfattoquotidiano.it – eravamo in qualche modo dei privilegiati, ma io non tornavo soddisfatto a casa”. E così, quando si è presentata l’occasione dell’incentivo, da bravo calciatore, ha colto la balzo: “Siamo stati coraggiosi, ma anche un po’ incoscienti. Coraggiosi perché ci vogliono attributi per fare un salto del genere. Ma attenzione, non sono migliore degli altri”. Per Marco la forze è la volontà: “Non volevo saperne più nulla. Stavamo sempre sul filo del rasoio e mi sono detto ‘basta’. E ho scelto di investire su me stesso e sulla città”. Oggi lavora nella macelleria “da Pasquale” in via Cesare Battisti, il luogo in cui per 50 anni ha lavorato suo suocero: macelleria, caseificio e polleria. “La mia vita ora è bellissima: la famiglia è sempre con me. Vivo il contatto con la gente. Certo, è un mondo nuovo: clienti, fornitori, ma non pensi più al 12 del mese, quando arrivava lo stipendio. Ora mi importa quanto incasso, ma con meno ansia: sono felice. Penso che la vita sia breve e bisogna viverla con l’acceleratore premuto. Il posto fisso? Va bene per i film di Zalone”.
Marco e Aldo, dalle lotte a “A casa vostra” – Nella ristorazione hanno investito anche Marco Tomasicchio e Aldo Ranieri, rispettivamente dopo 19 e 21 anni di fabbrica. Hanno aperto una rosticceria in centro, si chiama “A casa vostra”. “Perché questo nome? Quando in fabbrica facevamo le lotte per i nostri diritti e per quelli di un’intera città, i colleghi ci rispondevamo ‘Se ci chiudono veniamo a mangiare a casa vostra’. E noi oggi speriamo che ci vengano davvero”. Marco oggi ha 44 anni, dentro l’acciaieria lavorava nel reparto Rivestimenti del tubificio: “Sono uno di quelli che si riteneva fortunato perché ero nell’area a freddo, ma poi ho scoperto che il nostro reparto non era menzionato da nessuna parte. Perché avrebbero dovuto farci contratti da chimici, non da metalmeccanici. Un giorno ho scoperto che le vernici venivano impastate come una focaccia con la terra e gettate nella discarica interna e allora mi si sono aperti gli occhi”. Quel reparto era il primo a essere usato come ricatto occupazionale nella gestione Riva: “Cambiai mansione, ma dal 2008 finimmo in cassa integrazione e da allora lavoravo quasi una settimana ogni sei. Un pensionato mobbizzato a 40 anni”.
1 /5 Marco Tomasicchio e Aldo Ranieri sul balcone di A casa nostra
Aldo, invece, è stata una delle più grandi spine nel fianco dei Riva: “Appena assunto a tempo indeterminato, mi sono iscritto al sindacato: la Fiom Cgil, ci credevo allora. Alle prime votazioni fui eletto delegato, poi entrai nell’esecutivo e infine divenni segretario nell’Ilva. Mi sono dimesso quando ho scoperto che il sindacato era venduto: scrivilo, me ne assumo le responsabilità. Sono stato uno di quelli che ha svelato l’affaire Vaccarella, il circolo dei lavoratori acquistato dai sindacati coi soldi dei Riva. Ma qualcuno insabbiò tutto: mi chiamavano i delegati e ritiravano le firme. Quando capii che eravamo pochi a dire che il sindacato prendeva soldi dai padroni, mollai”.
Non ha mai smesso di denunciare quello che vedeva: “Persino all’Antimafia sono andato, ma nessuno ha mai pagato. Io invece come presidente del Comitato liberi e pensanti mi sono ritrovato ad affrontare due processi. Come quello per il lancio di polvere in testa all’ex deputato Michele Pelillo: sono colpevole, l’ho già detto in aula, ma era un gesto politico. Restituivo la polvere che per anni è caduta sulla nostra testa”. Quel rompiscatole è rimasto in fabbrica per anni senza quasi poter lavorare: “Avevo persino i colleghi contro: facevano pagare ai colleghi le mie denunce e alla fine ho deciso di andar via”. Quando ha scoperto l’arrivo di ArecelorMittal ha chiuso definitivamente i ponti: “Ho detto io ‘Consideratemi un esubero’, io so chi è e cosa fa Mittal: sono io che non voglio lui, non lui che non sceglie me”.
Anche per Marco e Aldo oggi la vita è migliorata: “Faccio anche 16 nel locale – spiega quest’ultimo – ma non pesano quanto una sola ora nell’Ilva. Quando sei a quei cancelli, lo sai quello che ti aspetta. E ti pesa dentro. Tra perdere il lavoro e prendere il cancro ho scelto di perdere il lavoro perché col cancro al lavoro non ci puoi andare lo stesso. E quella fabbrica, se uccide le persone, va fermata. Bisogna salvare i lavoratori e fermarla”. Nel loro locale, arredato come una casa di Taranto negli Anni ’70, c’è anche un balcone e una tuta blu dell’Ilva, come quella che le donne stendevano quando i mariti tornavano dalla fabbrica respirando la polvere e i veleni che portava con sé. Un monito, forse, per continuare a ricordare il sacrificio di una città intera.
Emanuele e la terrazza della nonna: “Qui le mie radici” – Emanuele Battista, invece, ha aperto un bed&breakfast nella città vecchia di Taranto. Una terrazza con vista mozzafiato sul Mar Piccolo dalla quale racconta la sua città ai turisti guardando quel mare. “Dal 2000 ho lavorato al Treno Nastri 1 e dopo 19 anni ho detto stop”. Ha messo alla luce “La terrazza di nonnAnna” nel palazzo che fu la casa dei suoi bisnonni: “Avevo le mie radici qui in città vecchia, era casa di famiglia e qui sono tornato. E la mia vita è cambiata radicalmente in positivo: sono molto più impegnato mentalmente, ma ho più stimoli. È tutto più positivo davvero. Avevo molte paure all’inizio, ma le ho tutte superate e ho scoperto che anche economicamente è un’attività gratificante”.
I tattoo di Francesco: “Ma mi mancano i colleghi” – Francesco Panarelli, invece, ha puntato sulla sua passione. Amava disegnare e tatuare: “Ho iniziato nel 2005, prima con amici e parenti, poi sono cresciuto. Mi girava già per la testa che quella passione, quell’hobby, potesse essere il mio lavoro. Sentivo che ero nato per fare questo non per stare in fabbrica. Dal 2012 ci pensavo, ma ho aspettato. Con l’incentivo ho capito che era il momento”. E così dopo 18 anni nel reparto di laminazione a freddo ha messo su “Black blood ink”, il suo studio di tattoo. “La mia vita ora? Adesso faccio quello che mi piace, non ho nemmeno l’esigenza di fare ferie. Sto bene con la gente, nello studio. Prima avevo molto più tempo libero, ma non m’importa: ora so che devo pedalare anche per le difficoltà legate all’emergenza Covid, ma non è come in fabbrica. Lì non vedi l’ora di tornare a casa”. Eppure c’è una cosa che manca: “Negli anni sono nati rapporti meravigliosi con i colleghi, ecco loro mi mancano. Mi piacerebbe che tu lo scrivessi. Perché passi più tempo con loro che con le famiglie e conosci tutto di loro. Tante volte, anche fuori dal lavoro, ci siamo aiutati. Ecco sì, questa è l’unica cosa che mi manca di quella fabbrica. E di quella vita ormai lontana”.