Affitti pagati a vuoto, esami sovrapposti, borse di studio in bilico, tirocini sospesi e tesi sperimentali convertite in compilative. Il ministro dell’Università Gaetano Manfredi ha garantito che “da settembre il semestre sarà prevalentemente in presenza”, ma non tutti gli universitari potranno permettersi di rientrare. E mentre gli atenei italiani capiscono come erogare una didattica mista, i fuorisede abbandonano le città universitarie fino a data da destinarsi, azzerando l’indotto della vita studentesca. L’ultimo rapporto Svimez stima per il prossimo anno accademico un calo di diecimila iscritti su 500mila maturi, anche tra chi è in corso c’è chi valuta di lasciare gli studi perché non può più permetterseli.
“Se le lezioni continuano online, mi converrà lasciare casa”, come è cambiata la vita degli studenti fuorisede – Hanno faticato a stare al passo con le materie, stravolto tesi e tirocini. Hanno trascorso la quarantena in spazi ristretti, sofferto la chiusura di aule studio (climatizzate) e biblioteche che di norma scandiscono i ritmi di apprendimento e riposo e hanno dovuto lasciare le sedi universitarie perché le famiglie non potevano più mantenerli. Gli studenti fuorisede sono tra coloro che più hanno subito gli effetti economici e sociali del covid. Chi aveva le spalle coperte ha approfittato della pandemia per studiare senza distrazioni, ma chi si trovava in una condizione già economicamente instabile sta lottando per portare a casa la sessione, con la consapevolezza che se qualcosa andasse storto l’anno prossimo potrebbe dover dire addio agli studi o almeno alla vita fuorisede.
E’ il caso di Alice, borsista al secondo anno di Lettere moderne all’Università di Bologna: “Sono sempre stata in regola, ma questa volta non riuscirò a finire gli esami prima di dicembre”. Ha vent’anni e viene da Perugia, sua madre ha un ristorante, chiuso nei mesi di lockdown, suo padre è tuttora in cassa integrazione: “I miei genitori hanno avuto un calo degli introiti del 60% e in famiglia siamo 5. Sono riuscita a non lasciare casa a Bologna soltanto perché la proprietaria si è convinta ad abbassarmi il canone per un paio di mesi, ma non so fino a quando riuscirò a tamponare”. Abita con altri studenti in periferia, ma le stanze sono piccole e senza le aule studio, con gli appelli che si accavallano, il suo rendimento è calato: “Se non riesco a mantenere i criteri di merito potrei mettere a rischio la borsa di studio per l’anno prossimo e dovere restituire il goduto. Forse, poi, lascerei Bologna”. Parteciperà a un bando regionale per studenti in difficoltà, ma non si illude: “Ci saranno liste lunghissime. Trovo folle l’idea di perdere la borsa senza che la mia condizione economica sia migliorata”.
Poi c’è Alessia, 26 anni, studia Scienze internazionali a Torino. I genitori vendono capi di abbigliamento nelle bancarelle dei mercati settimanali di Sicilia e di tempi duri ne ha visti parecchi. Ha lavorato per anni prima di potersi iscrivere alla specialistica e nonostante i disagi conta di sostenere tutti gli esami in tempo. Ma è appesa alla borsa di studio. “Finora ho ricevuto solo la prima rata (circa 400 euro) che copre a stento una mensilità di affitto. E se prima del Covid potevo risparmiare sui libri e arrotondare con qualche lavoretto part-time, ora è impossibile. Se le lezioni continuano online mi converrà lasciare casa”.
A una scelta più netta è arrivato Mauro (nome di fantasia), è del Sud e frequenta Ingegneria meccanica al Politecnico di Torino. Ad aprile ha lasciato la città perché sua madre ha perso il lavoro poco prima del lockdown ed è rimasta senza reddito per oltre tre mesi. Spera che l’insegnamento online sarà garantito fino alla fine dei suoi studi, in alternativa, valuta di abbandonare del tutto l’Università. Per quelli come lui la teledidattica potrebbe essere la salvezza, ma in molti casi spingerà gli studenti a rimanere lontani dalle città universitarie. Come Francesco, fuorisede di 23 anni, che studia Marketing e mercati globali all’Università Milano Bicocca. Non ha disdetto la casa al Nord ma appena possibile è volato in Calabria: “Se potrò seguire le lezioni da Vibo Valentia non tornerò prima di marzo 2021”. La scelta è ancor più critica per chi si trova a metà percorso, come Carlo (nome di fantasia), 22 anni, pugliese. Studia Consulenza del lavoro all’università di Bologna e per il suo affitto da fuorisede spende 650 euro al mese. Ha lasciato l’appartamento a giugno, a un esame dalla laurea triennale. La magistrale? “Avrei voluto farla a Bologna ma ora non so. Vivere in una città universitaria fatta di studenti che non ci sono è un grosso limite”.
“Abbiamo perso un anno di lavoro. Senza studenti non sappiamo se potremo farcela”. I rischi per paninerie, bar, copisterie e librerie – A subire l’impatto diretto della mancanza dei fuorisede sono i commercianti che della vita studentesca hanno fatto un business. Paninerie, bar, copisterie, librerie situate nel cuore delle zone universitarie: staccavano migliaia di scontrini al giorno e oggi ne emettono a stento un centinaio. Per capirlo basta contare i tavoli vuoti del “Genesi”, bar di fronte a Palazzo nuovo, sede della facoltà di Lettere dell’Università di Torino: “Abbiamo perso il 95% dei clienti. Con questi incassi – dice Serena, la titolare – non ci copriamo nemmeno l’affitto. Stiamo dicendo ai dipendenti di accettare alternative professionali perché non c’è garanzia di ripartire”. Molti di questi bar sono gestiti da intere famiglie oggi al collasso: “L’abbiamo vissuta come un nucleo a zero reddito” – dice Valeria del bar “Se Puede”, uno dei più frequentati via Verdi. “Avevamo intenzione di assumere una ragazza ma non lo faremo”. Hanno beneficiato del fondo perduto della Regione Piemonte e dei 600 euro stanziati dal governo, ma la toppa non copre il buco: “Da febbraio a oggi abbiamo perso un anno di lavoro, la fine delle lezioni, due sessioni di laurea, una sessione e mezzo di esami e chissà se ci sarà quella autunnale. Abbiamo perso il turismo dei genitori che vengono a cercare casa per i figli, perderemo i test di ingresso: chi sopravvive così?”.
Stringono i denti fino alla ripresa della didattica mista, ma nessuno sa quanti studenti torneranno: “Non siamo abituati a mollare. Abbiamo solo paura che lavorare non basti più”. Davanti alla facoltà di Lettere dell’Università di Milano lo scenario è altrettanto desolante, e a fare paura agli imprenditori sono soprattutto le lezioni a distanza: “Nel caso in cui si ripartisse con una didattica al 60 per cento in presenza – dice Alessandro, che ha una copisteria di fronte alla Statale – riusciremmo a tenere duro fino a gennaio 2021. Ma la ripresa esclusivamente online potrebbe causare la chiusura dell’attività”. Va peggio per i bar: tre in via Festa del perdono non sollevano la saracinesca da febbraio. Perché nelle grandi città universitarie, di fatto, a resistere sono solo i locali di vecchia data. Come il bar Maurizio, che a Bologna è un’istituzione: “Ho una clientela storica – dice il titolare – e fortunatamente da me è rimasta, ma chi è più giovane probabilmente non ce la fa”. Le attività di nuova apertura non sanno ancora se riapriranno e chi è ripartito, come il bar Belmeloro o il Pocomabuono lo ha fatto a orario ridotto: “Se non tornano gli studenti non sopravvivremo”, pensano in molti. “Siamo quelli che lavorano per passione – dice un barista – aperti 365 giorni all’anno ma oggi tiri su la serranda con tanta speranza e una domanda: tutte queste tasse che sono state sospese, come le paghiamo a settembre?”. Alcuni si chiedono perché non ci sia ancora un protocollo congiunto tra Ministero e Comuni nelle città in cui l’indotto universitario porta lavoro a centinaia di persone.
“Didattica sicura in presenza e più fondi ai fuorisede o sarà l’università delle disuguaglianze” – Il 2 luglio scorso il ministro Manfredi, a margine della riunione del comitato dei rettori dell’Università della Lombardia, ha garantito che “il semestre che partirà da settembre sarà prevalentemente in presenza”. Ma i protocolli sono ancora in via di definizione e nessun fondo nel decreto ministeriale appena varato sembra destinato agli spazi fisici. Anche per questo, secondo le associazioni studentesche, c’è il timore che si sia ancora fermi agli annunci: “Servono massicci finanziamenti per l’edilizia universitaria pubblica”, dicono i rappresentanti invocando l’ampliamento delle aule oltre che la messa in sicurezza degli spazi già esistenti. Da marzo gruppi studenteschi come Link e Noi restiamo chiedono maggiori investimenti sul diritto allo studio. Tra le loro rivendicazioni c’è il blocco degli affitti e delle utenze per i fuorisede, l’aumento dei posti letto nelle residenze universitarie, l’incremento delle borse di studio e l’abbassamento dei criteri di merito per il mantenimento delle stesse, il calmieramento dei prezzi di affitto, il sostegno per le spese universitarie e in alcuni casi l’innalzamento dei limiti di esonero contributivo. Ma solo una minuscola fetta di queste proposte è stata accolta dal governo, che è intervenuto principalmente sul fronte degli esoneri parziali e/o totali sulla base di fasce Isee non superiori a 30mila euro. In particolare, il Ministero ha stanziato 50milioni per portare da 13 a 20mila la soglia Isee che esonera dal pagamento totale delle tasse, zona di azione che in gergo è detta “No tax area”.
Tuttavia anche le associazioni che da anni lottano per questa abolizione totale e che dunque hanno accolto con favore gli stanziamenti di Manfredi, sottolineano che i fondi messi in campo sono insufficienti e denunciano il rischio che una misura del genere aumenti la disparità fra gli atenei: “Quelli meno floridi avranno ancora meno risorse per i loro iscritti: significa alimentare un sistema di competizione tra gli atenei che va contro l’interesse degli studenti”. Per le stesse ragioni, le rappresentanze insistono affinché la priorità sia investire sulla didattica in presenza in sicurezza “anche nelle università di serie B”. Quello che manca infatti sono finanziamenti equamente distribuiti, con una ricaduta diretta sul diritto allo studio: da un lato borse e agevolazioni fiscali, dall’altro sgravi che permettano alle famiglie di sostenere il costo della vita nei poli di eccellenza per i loro figli. Urgenze simili evidenzia anche Svimez, che nel report su scuola e università pubblicato lo scorso giugno lancia l’allarme: “L’impoverimento delle famiglie, a seguito della crisi, si tradurrà in una contrazione della spesa destinata agli studi universitari dei figli”. Questo temono le associazioni: “Se si continua così – spiegano i portavoce di ‘Noi restiamo’ – le città universitarie non si spopoleranno, ma il sistema universitario diventerà più elitario perché non tutti gli studenti potranno accedere, sia per un fatto di tasse che per carenza di residenze pubbliche e borse di studio. Vivere la vita universitaria in una città significa costruire relazioni e porre basi per il futuro lavorativo. Questo sistema crea disuguaglianze di status”.