di Paolo Di Falco e Andrea Leone

Ho fatto un’associazione a delinquere, ragazzi (…) in poche parole abbiamo fatto una piramide (…) noi siamo irraggiungibili“. Queste non sono le parole di un criminale qualsiasi, bensì di un carabiniere che si sentiva un boss, indossata la sua divisa. Siamo a Piacenza e, secondo le indagini ancora in corso, quest’ultimo era riuscito a trasformare un presidio dello Stato in un covo di criminali, complice anche un misterioso silenzio delle vicine stazioni.

È davvero misteriosa la sorte con i suoi brutti tiri: come può chi giura di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina e onore tutti i doveri per la difesa della Patria e la salvaguardia delle libere istituzioni ritenersi addirittura sopra le leggi? In pratica, in quella caserma non c’era nulla di legale: traffico di droga, lusso sfrenato, complicità con le organizzazioni criminali, festini con escort…

All’apice di questa “piramide” ci sono i racconti di Giuseppe Montella, il boss in divisa del gruppetto di carabinieri accusati di pestaggi, estorsioni, spaccio e anche di tortura. Quest’ultimo, addirittura, vantava al figlio i vari pestaggi, con frasi che non provocano solamente tanto sdegno, ma anche tanta rabbia, in quanto pronunciate da chi dovrebbe porsi a baluardo dello Stato. Questo c’ha fatto penare… Mamma quante mazzate ha pigliato… Abbiamo aspettato là dieci minuti, siamo riusciti a bloccarlo, non parlava, e ha preso subito due-tre schiaffi. Ne ha prese, amore… in Caserma, amore! Colava il sangue, sfasciato da tutte le parti.

Divise sporche, le loro, divise piene di sangue, divise che indegnamente erano indossate anche da Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, responsabili del pestaggio che poi condusse alla morte Stefano Cucchi. Pestaggio che purtroppo non resta un caso isolato. Divise che però non possono infangare l’operato di 100.000 uomini che ogni giorno cercano di tenere alta la bandiera della legalità, che ogni giorno lottano contro la criminalità anche al prezzo della propria vita.

Purtroppo uno degli aspetti più tremendi è realizzare come un operato talmente disgustoso vada a ledere la credibilità di uno Stato. Sì, perché quegli individui erano parte del nostro sistema statale, lo rappresentavano e in un niente invece hanno messo in crisi, anche se solo per un attimo, la fiducia che riponiamo nelle nostre istituzioni e in chi ci protegge. Essi sono stati, e per qualcuno lo sono ancora, lo sponsor più importante della criminalità e dell’anarchia. Hanno fatto sì che molti finissero nella trappola de “l’Italia è un paese corrotto”.

Ci sono stati molti ragazzi che innanzi ad una notizia del genere si sono sentiti traditi, si sono sentiti presi in giro. Da sempre, fin da piccoli, la maggior parte dei bambini è rimasta sedotta dalla figura del carabiniere, chissà se ammaliati dalla sirena della volante, incantati magari da quel pennacchio di piume che svetta sul loro capo, oppure dal semplice fatto che rappresentano la Giustizia. Ma a vedere ciò che è successo tra le mura di quella caserma, cosa dovrebbe affascinare un ragazzo? Come riscattare tutto ciò agli occhi dei più giovani?

La risposta è raccontare, raccontare che essere carabinieri significa servire lo Stato, il proprio Paese, il prossimo. In un momento del genere bisognerebbe gridare le storie di uomini come Salvatore Raiti, morto durante un attentato mafioso il 16 giugno del 1982 in quella che si ricorda come “La strage della circonvallazione”, storie di chi nella legge ci credeva ed è stato ucciso da coloro che invece la volevano sovvertire.

Per favore, scendiamo in campo per urlare che la giustizia va difesa, per dimostrare che noi nell’Arma ci crediamo, che abbiamo fiducia nello Stato e che per questo lotteremo ogni giorno!

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