“Il gip Patrizia Todisco ha firmato il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto e misure cautelari per alcuni indagati nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici Ilva”. Alle ore 14.14 del 26 luglio 2012, l’Ansa conferma quanto è nell’aria da giorni, con i blocchi degli operai lungo la statale Appia e nel cuore di Taranto. Iniziano 8 anni di promesse evaporate, escamotage giuridici, licenziamenti. Otto anni di piani di rilancio mancati e svolte ambientaliste lasciate in un cassetto, otto anni persi al termine dei quali la più grande acciaieria d’Europa, cuore pulsante della siderurgia italiana e “mostro” tentacolare in grado di soffocare una città, è agonizzante. Questa è la storia di un’occasione persa, insieme a migliaia di posti di lavoro sfumati e decine di vite spezzate. La storia di un’opportunità andata in fumo, dispersa come “minerale” nel vento. (a cura di f.c. e a.t.)
Da un lato una visione, un progetto, un’idea. Dall’altra la realtà, crudele e quotidiana. Il dilemma della bonifica di Taranto dopo il presunto disastro ambientale causato dai veleni dell’Ilva è tutta qui. Da un lato Vera Corbelli, la commissaria straordinaria per le bonifiche nominata dal governo di Matteo Renzi nell’estate 2014 e confermata dal primo governo Conte nell’estate scorsa, dall’altra gli operai e gli abitanti del capoluogo jonico, dilaniato dal dilemma salute-lavoro. In cinque anni dalla sua nomina, Vera Corbelli ha speso oltre 60 milioni di euro, ma per i tarantini quelle bonifiche sono ferme, non si sono mai viste.
Esiste un gap tra l’immenso studio fatto dal commissario e la percezione dei cittadini: un divario apparentemente ciclopico che è spiegabile solo attraverso la conoscenza approfondita delle parti in gioco. Su un estremo c’è la geologa calabrese Corbelli: donna di scienza, di studi, di progetti. Su quello opposto una città esasperata, disillusa e indolente, con il vizio di innalzare o seppellire chiunque si avvicini al suo dramma. “Potevo semplicemente bonificare i siti indicati dal ministero con interventi veloci e mirati, ma non avremmo risolto gli atavici problemi di Taranto: ho scelto di studiare in modo multidisciplinare i danni causati dall’inquinamento per trovare soluzioni efficaci e garantire al territorio la possibilità di produrre anticorpi che possano domani evitare il ritorno a queste drammatiche condizioni”.
Nel suo piccolo ufficio al quinto piano della Prefettura di Taranto, Vera Corbelli per la prima volta spiega in modo dettagliato il suo lavoro. Per due ore parla in modo appassionato ed estremamente tecnico: falde, campionamenti, studi, caratterizzazioni, capping, barrieramenti. Ed è qui che emerge il principale limite di questa vicenda: bonificare Taranto non è cosa semplice, anzi. Il territorio ionico non è stato violentato solo dalle emissioni dell’acciaieria. Ci sono i danni creati in Mar Piccolo dalla Marina militare che qui ha la principale base navale del sud Italia. E poi ancora i danni creati nelle terre della provincia dai privati che hanno interrato tonnellate di rifiuti pericolosi arrivati fino alla falda acquifera. C’è la cosiddetta “bomba Cemerad”: un capannone tra Taranto e il piccolo comune di Statte in cui sono conservati centinaia di fusti radioattivi. Serve tempo, insomma. Tanto tempo.
Ma nell’era dei social non basta studiare e avviare i progetti, bisogna saper raccontare i passi compiuti. Soprattutto a Taranto. “Ma cosa devo raccontare? – chiede quasi sorpresa Corbelli – Io sono una scienziata se non ho una validazione di dati io non posso diffonderli. E poi mi creda, tutte le volte che sono stata invitata a qualche convegno o a qualche incontro pubblico, ho cercato di spiegare anche ai giornalisti presenti quello che stiamo facendo. Ma non basta un’intervista di pochi minuti per descrivere tutto. È troppo grande, troppo complesso”. Già, non basta. Nemmeno quegli interventi sono sufficienti. E per i tarantini quelle manifestazioni diventano passerelle. Le verità svelate dalle inchieste giudiziarie hanno esasperato gli animi e amplificato i pregiudizi: lo Stato, qui, è percepito a prescindere quasi come un complice del disastro.
“Taranto – spiega Corbelli – è come un corpo attaccato da batteri: è necessario lavorare non sugli effetti, ma sulle cause affinché in futuro il problema non si ripresenti”. La scienziata campana non vuole semplicemente sanare i danni, vorrebbe affrontare tutto il “problema Taranto”. Ha coinvolto università e Politecnico, contattato centri di ricerca provenienti da diversi Paesi. Lo Svimez lo ha ritenuto un modello facendo di Taranto un caso unico in Italia e nel mondo.
Corbelli ha firmato decine e decine di protocolli di intesa con gli enti pubblici e sostenuto una serie di progetti distribuendo fiumi di denaro. Tra il 2017 e il 2018, per fare qualche esempio, sono stati trasferiti all’Autorità Portuale di Taranto ben 18 milioni di euro. Altri 2 milioni di euro sono finiti nelle casse del Comune ionico. E poi oltre 700mila euro all’Università di Bari, altri 660mila euro al Politecnico. Complessivamente le risorse a disposizione del commissario ammontano a 214 milioni di euro di cui il 99% è già stata impegnato. Le risorse già trasferite sono ben 138 milioni di euro e quelle già liquidate superano di poco i 64 milioni di euro.
Insomma tanti soldi che, però, agli occhi dei tarantini non sono serviti a nulla. Ma Vera Corbelli non ci sta. Elenca i principali interventi e spiega ogni dettaglio. “Per il Mar Piccolo in particolare è stata definita un’azione di sistema articolata in diverse azioni come gli interventi per la mitigazione degli impatti derivanti dagli scarichi, l’abbattimento delle fonti di contaminazione, la bonifica degli ordigni e residuati bellici, persino la tutela, il monitoraggio e la traslocazione di specie di interesse conservazionistico. Come i cavallucci marini che proprio a Taranto hanno trovato casa”. Ma soprattutto dal Mar Piccolo sono già state recuperate montagne di rifiuti: oltre 86 tonnellate di autovetture, 156 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati e ben 197 tonnellate di relitti metallici, eliche, cavi di acciaio e altro materiale. Ed è quest’ultima parte che spiega meglio di altre come l’inquinamento nelle acque ioniche non sia arrivato solo da Ilva, anzi: il principale indagato della vicenda sembra la Marina militare che con le sue basi navali è stato al centro di una feroce polemica nei mesi scorsi. Ora i lavori si stanno concentrando anche sul Mercato Ittico Galleggiante, intervento inizialmente non previsto nella bonifica: “Doveva risolversi tutto con una colata di cemento e invece – ribatte Corbelli – ho bloccato tutto: ho attivato una progettazione olistica che tenesse conto delle complessità”. Presto saranno assegnati i lavori per la fase successiva e al progetto hanno aderito diverse università tra le più prestigiose al mondo.
Ma soprattutto è dell’ex “Cemerad” che il commissario si vanta. La bomba ecologica che aveva portato a Statte, comune alle porte di Taranto, i fusti contenenti materiale radioattivo e poi sorgenti e filtri industriali che contenevano polveri provenienti dall’esplosione e dalla nube radioattiva di Chernobyl. Un’operazione che oggi è al 90% del suo completamento: “Il deposito oggi è in sicurezza e sono stati allontanati oltre 12mila fusti di circa 16.500″. Completo è invece il progetto di bonifica delle scuole del quartiere Tamburi: il primo e unico progetto definito, però, ha il sapore della beffa.
Poco dopo la consegna degli edifici, la procura di Lecce sequestrò le adiacenti collinette ecologiche: costruite negli anni ’70 per proteggere il rione a ridosso dell’Ilva, erano state realizzate con materiali di produzione ritenuti nocivi per la salute. Le scuole furono chiuse per ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci e riaperte solo quando le autorità sanitarie garantirono per la salute degli alunni. Poi è arrivato il Covid e le scuole hanno nuovamente chiuso i battenti. Insomma a distanza di anni ci sono studi in corso e progetti che sulla carta sarebbero in grado di risolvere atavici problemi di un territorio disperato. Ma ai tarantini tutto questo non basta: sono parole e passerelle. E gli studi, come i protocolli di intesa avallati dalle istituzioni locali con i Riva negli anni scorsi, sono carte vuote. Uno scontro difficile da sanare. Impossibile, forse.