di Carlo Schettino
La viceministra Laura Castelli ha sollevato un vespaio in riferimento alla sua affermazione sui ristoratori, e la sua frase è stata usata dalle opposizioni in modo vergognoso e in modo più civile, nei toni almeno, anche dalle lobby delle imprese della somministrazione.
E’ chiaro ai più che la Castelli stesse ragionando su uno “scenario”, sugli effetti del lockdown, evidenziando la necessità di ripensare l’intero Sistema Italiano, con il caso dei ristoratori come mero esempio che, in questo momento, sono decisamente una categoria sofferente. Come vedremo, è un settore già problematico malgrado l’importante contributo in termini di Prodotto Nazionale Lordo.
Il lockdown ha costretto i singoli e le comunità, tra cui le aziende, a ripensare il proprio modello di vita e di produzione. Gli stessi approcci sono stati esemplari nella ristorazione in generale, dove i grandi Chef stellati e le più umili famiglie hanno pensato, riavviato, rinnovato, sperimentato tantissimo (Dark e Ghost Kitchen, vouchers, digitalizzazione etc.), ridisegnando anche i modelli abituali grazie al delivery, il take away, in epoca Covid.
Proprio come suggeriva la Castelli, analizzare la situazione e individuare altre aree di business. Il vero problema (lo dice la Fipe – Federazione Italiana Pubblici Esercizi) è una pluriennale ipercompetizione che nel settore si è sviluppata per tre ragioni principali:
1) la liberalizzazione che, nei centri urbani, più che altrove, permette a tutti di fare tutto, abbassando la qualità media dei servizi e dei prodotti a discapito dell’intero comparto (i bar servono pasti e i ristoranti fanno gli aperitivi) incentivando gli investimenti solo nei format più efficienti;
2) il settore (in tutto il mondo) attrae investitori poiché è a più alta marginalità (rendimenti) spingendo la crescita di format con servizi standardizzabili, a discapito della qualità;
3) le mafie hanno investito anch’esse nel settore, per via del riciclaggio che l’alto volume di contante permette, in queste attività, sfalsando la competizione. Questi fattori sono cause di un male (a Milano aggravato dagli effetti pre e post Expo) che mostra come l’attrattività debba essere pesata bene, dato che dal 2017 ad oggi in tutta Italia il tasso di mortalità è superiore alla natalità, chiudono cioè ogni anno molte più aziende di quante ne aprano.
Il turnover imprenditoriale su oltre 300mila imprese è sempre negativo: nel 2016 -10mila unità. Nei primi nove mesi del -8.400 unità. Nel 2018 il saldo è negativo per oltre 11mila unità. I dati sono pubblicati dalla Fipe e sempre loro hanno individuato, nei loro report, una serie di ulteriori drammatiche indicazioni che testimoniano quanto sia problematico il settore.
Mi riferisco al tasso di sopravvivenza delle imprese dove, indipendentemente che si tratti di Ristorante o Bar e che sia una società di persone o di capitale, solo il 50% circa sopravvive oltre 5 anni dalla fondazione. Direi che si dovrebbe riflettere bene prima di entrare nel settore. Perché allora si continua ad aprire ristoranti (e a chiuderli)?
Il motivo è che l’attrattività del comparto è, da un lato, finanziaria (incasso subito e pago dopo), ed è, dall’altro, collegata alla dinamica del Valore Aggiunto che dopo la crisi del 2008 è crollata fino al 2013 per poi risalire e recuperare ampiamente le perdite complessive, portando il settore ad un’ampia superiorità: circa 2% in più rispetto alla media nazionale (attrattività) e senza barriere all’ingresso.
Se ne potrebbe dedurre quindi che il settore (acciaccato) è stato affossato, certo, ma si urla e ci si offende per chiedere più interventi e ritornare alla stessa dannosa situazione quo ante? O per non confrontarsi con i nuovi ripensamenti (salubrità, territorialità, italianità, tecnologia, digitalizzazione, etc) la cui adozione metterebbe in difficoltà tanti imprenditori che, abituati a filiere a basso standard (procedure e contenuti), sarebbero esclusi dal business? Ai posteri l’ardua sentenza.