La Regione è la più colpita in Italia dalla pandemia e, nonostante il calo dei contagi, i sanitari lamentano un'assenza di riforme per tutelare il sistema di cura. E per questo alcuni hanno deciso di scrivere missive pubbliche o rivolgersi con mail di protesta ai consiglieri regionali: "Non siamo eroi", si legge nel testo firmato da 50 medici di Treviglio. "Alla fine di questa triste e faticosa avventura, riteniamo inevitabile una profonda riflessione sul Sistema Sanitario Regionale, che porti ad un 'redde rationem' nei confronti dei pazienti, dei dipendenti e, soprattutto, della propria coscienza"
L’emergenza Covid in Lombardia ha portato alla luce mancanze croniche e difficoltà di un sistema che, in molti casi, ha privilegiato il privato ai danni del pubblico. E anche adesso che la fine della prima ondata sta dando la possibilità agli ospedali di prendere fiato, non si placano gli allarmi di chi chiede un cambio sistemico e radicale. E la denuncia arriva proprio da chi in ospedale ci lavora, come medici e infermieri, che da Bergamo a Cremona e Lecco hanno deciso di prendere posizione con lettere ufficiali per chiedere un intervento prima che sia troppo tardi.
CARENZA DI PERSONALE – Una delle problematiche che più si è fatta sentire in questi mesi è la mancanza di personale. “E’ così perché il pubblico non è attrattivo”, dice Francesco Scorzelli, esperienza di lungocorso da caposala e dirigente sindacale Usb. “Continuiamo a fare concorsi che vanno deserti. Ad esempio, nella struttura dove lavoro avevamo bisogno di un primario anestesista, abbiamo fatto il concorso, ma le domande sono state due e al colloquio se ne è presentato uno. Ausiliari, oss, infermieri, primari, amministrativi…il pubblico non li interessa più. Viceversa facciamo di tutto per assegnare ciò che ci manca all’esterno, appaltando ai privati”.
Da Crema, in provincia di Cremona, ovvero da uno dei fronti italiani più attivi contro la pandemia, Attilio Galmozzi, medico di Pronto soccorso, dichiara: “Tutta l’emergenza sanitaria appena passata è stata scaricata sul sistema pubblico e il privato s’è mantenuto assolutamente in forze. Ad un certo punto, in piena emergenza, nell’ospedale dove lavoro c’erano 96 pazienti, mentre in carico al policlinico di San Donato (struttura privata ndr) ce ne erano quattro”.
Qualche chilometro più a Est, si entra in provincia di Bergamo, altro fronte contro la pandemia. A inizio giugno, dalla Asst Bergamo Ovest parte la lettera di 50 medici dell’ospedale di Treviglio verso la Cgil locale, che urlano tutta la loro esasperazione. Scrivono che i “colleghi si sono ammalati (alcuni gravemente) anche a causa di una gestione sanitaria che riteniamo sia stata inadeguata”. E poi di nuovo: “L’arte del comando deve compendiare molteplici aspetti: competenza professionale, rispetto delle risorse a disposizione, rispetto delle regole di sistema, rispetto degli obiettivi, rispetto del personale”. Parole dirette a chi li coordina da vicino, che però ha risposto attraverso le pagine del Corriere della sera locale parlando di “critiche strumentali”. Così dice Peter Assembergs, direttore generale dell’Asst Bergamo Ovest, che al quotidiano di via Solferino aggiunge: “Si tratta di una piccola minoranza che agisce per interessi sindacali”.
Ma i malumori non si placano e sembrano ora puntare pure ai piani alti di Palazzo Lombardia. Da qui, il 10 giugno scorso, è arrivata la notizia della sostituzione del plenipotenziario alla sanità, il Dg Luigi Caiazzo (in carica dal 2018), con l’ex Direttore generale degli Spedali civili di Brescia, Marco Trivelli. Caiazzo va a fare il vicesegretario generale con delega all’integrazione sociosanitaria, un avvicendamento presento come premio, ma che dovrà fare i conti con i tanti malumori.
Non basta ai medici bergamaschi l’essere considerati degli eroi per placare la rabbia nei confronti di un sistema che, denunciano, non funziona. “La popolazione – scrivono ancora i sanitari di Treviglio nella loro lettera di giugno – ci ha generosamente chiamato in questo modo. Ma no, non siamo eroi, abbiamo semplicemente svolto il nostro lavoro, dettato dalle nostre regole etiche e deontologiche, anche quando questo ci avesse sottoposto a gravi e consapevoli rischi personali”. “Abbiamo un sistema che non ci premia” prosegue la missiva, per poi chiudere: ”Alla fine di questa triste e faticosa avventura, riteniamo inevitabile una profonda riflessione sul Sistema Sanitario Regionale, che porti ad un ‘redde rationem’ nei confronti dei pazienti, dei dipendenti e, soprattutto, della propria coscienza”.
All’ospedale di Treviglio, spiega Roberto Rossi, Segretario generale Funzione pubblica Cgil di Bergamo, ci sono sempre stati problemi al Pronto soccorso. Per farvi fronte molti medici in forza alle Unità Operative di Medicina e di Chirurgia sono stati chiamati a svolgere turni in Pronto soccorso e ciò unito alle difficoltà legate al Covid, ha esasperato gli animi.
LA SANITA’ PUBBLICA CHE NON ATTRAE – Un’ottantina di chilometri più a nord si entra in provincia di Lecco. “Da queste parti – spiega il dirigente sindacale Usb Scorzelli – abbiamo avuto 347 morti da Coronavirus, solo negli ospedali. Si tratta dell’1 % dei morti di tutta Italia, in un territorio che in quanto a popolazione conta lo 0,5 % dell’intera popolazione nazionale. Infine, abbiamo avuto 400 lavoratori della sanità positivi”.
Dall’ospedale di Lecco e Merate il malessere s’è così trasformato in una missiva della Usb inviata via email il 23 giugno scorso ad alcuni consiglieri (soprattutto del Movimento 5 stelle) di Regione Lombardia. Si parla dei 25 anestesisti venuti a mancare a partire dall’ottobre del 2017, perché hanno preferito trasferirsi altrove. La direzione della Asst locale ha deciso di sottoscrivere un contratto con una cooperativa esterna che fornisce medici, infermieri e tutto il personale sanitario di cui si può avere necessità. Decisione legittima, presa anche da altre realtà ospedaliere, come Pavia, ma che è stata criticata dai sindacati. “La privatizzazione non è solo fuori, ma anche dentro gli ospedali pubblici” dicono dall’Usb, dove spiegano: ”La vigilanza, le pulizie, i pasti, chi si occupa della manutenzione… è tutto in mano a cooperative private“. “L’ultima arrivata – aggiungono i sindacati – paga gli anestesisti 115 euro l’ora. Tenendo conto che questo personale può fare anche turni lunghi 12 ore, ciò significa che questi medici, in un giorno, prendono tre quarti dello stipendio mensile di un loro omologo dipendente, creando ovviamente conflitti tra il personale in corsia. Quindi altra gente sta pensando di andarsene, per tentare di essere poi assunta dal privato”.
L’emorragia di personale dal pubblico c’è sempre stata, ma s’è aggravata col Covid. Secondo Scorzelli, inoltre, il privato avrebbe patito di meno l’ecatombe seguita all’esplosione dell’epidemia, risultando oggi meglio organizzato e attraente per un lavoratore valido. “Il pubblico – spiega il Dirigente sindacale Usb – a seguito del Covid, ha in pratica fermato i suoi interventi programmati (i cosiddetti ‘d’elezione’) mentre nel privato questo blocco ha avuto un minore impatto. Eravamo già in ritardo con le prestazioni non d’urgenza e con gli esami prima del Covid, ora questo gap è cresciuto”.
LETTI VUOTI PER TIMORE D’UNA SECONDA ONDATA – Finita la fase acuta dell’epidemia, per la sanità pubblica lombarda il lavoro da fare è ancora tanto. Con la delibera 3115 del 7 maggio 2020 “Indicazioni organizzative per la ripresa delle attività di ricovero”, Regione Lombardia ha stabilito che il sistema di ospedali ed ambulatori non potesse tornare ad una normalità pre-Covid, ma dovesse avviare una “ripresa dell’attività ordinaria di ricovero graduale e fino ad un massimo del 60-70% dell’attività erogata dalla struttura prima dell’evidenziarsi della pandemia”, per occuparsi soltanto dei “pazienti che necessitano di prestazioni non rinviabili oltre i 60 giorni di attesa”.
Il sistema sanitario regionale gioca d’anticipo rispetto ad una probabile ripresa del contagio e con l’occhio fisso all’indice R0 ha deciso di riservare, in ogni ospedale (sia pubblico che privato accreditato), dal 30 al 40% dei posti a eventuali nuovi pazienti vittime d’una seconda ondata. In sostanza quei letti ora devono rimanere vuoti. “Nei presidi pubblici – spiega Rossi dalla Cgil di Bergamo – stanno mettendo in atto le misure previste al massimo livello, ovvero tagliando 4 posti su 10. In più l’agenda delle visite ambulatoriali continua ad essere molto scarna e so, purtroppo, di malati oncologici che stanno aspettando un po’ troppo”.
“Nel privato, viceversa – aggiunge Rossi – l’ambulatoriale è partito con maggior velocità e i letti vengono occupati nella maniera più ampia possibile. Ma ci dovremmo stupire del contrario, dove la bussola viene puntata costantemente sul profitto. Quel che mi auguro è che ci siano dei controlli da parte dell’Ats, come previsto nella delibera, in modo che tutti stiano con rigore alle regole”.
Secondo il delegato sindacale il problema è a monte: “Il buco s’è creato sostanzialmente quando il ‘modello formigoniano’ ha optato per la dismissione della sanità pubblica, consegnando al privato circa il 50 % del mercato. E così oggi s’è costretti ad andare a regime ridotto, senza dare le risposte immediate che cercano i malati non-covid; tenendo letti vuoti, perché abbiamo paura d’una ricaduta e d’un nuovo tracollo del sistema… Questo è il risultato – termina Rossi – del disinvestimento rispetto ad una sanità territoriale pubblica”.
SANITA’ SUL TERRITORIO IMPOVERITA – Parole a cui fa eco l’iniziativa messa in campo da 23 medici dell’ospedale di Crema. Da qui ci si è voluti inserire nel dibattito sulla realizzazione del nuovo ospedale di Cremona, con l’invio ancora di una email e sempre ai consiglieri di Regione Lombardia, datata 24 giugno 2020, in cui tra le altre cose è stato scritto: “E se provassimo ad utilizzare i 250 milioni di euro paventati per la costruzione di un nuovo (utile?) ospedale a Cremona a favore di una grande sperimentazione nazionale di medicina di prossimità? Un laboratorio lombardo, in sinergia con le ASST, gli Ordini Professionali, i Medici di Medicina Generale, Medici e infermieri ospedalieri e le Università?” Proprio così, “perché l’esperienza vissuta in questi mesi – spiega il dottor Galmozzi – ovvero l’assenza di una rete territoriale, è stata il punto più debole della gestione dell’emergenza Coronavirus”. “La riforma della sanità lombarda – continua il medico di Pronto soccorso – entrata in vigore nel 2017, con tutte quelle iniziative di medicina di prossimità, è rimasta sulla carta. Doveva portare più prevenzione, più territorio, più aggregazione e meno ospedalizzazione ma si è continuato a delegare alle aziende ospedaliere tutto ciò che è delegabile e anche oltre…” Su quest’ultimo aspetto punta anche la lettera sottoscritta da Galmozzi e i suoi colleghi, dove si precisa che l’accesso agli ospedali “non può più essere indiscriminato, inappropriato ma qualificato e puntuale; con piani di formazione adeguati, personale non ridotto al lumicino, tecnologia e posti letto a medio-alta intensità, per il paziente acuto. Rilanciamo la medicina territoriale” e terminano: “Va bene parlare di investimenti, ma serve anche parlare di rilancio del territorio”.
Le riforme e le spending review che si sono alternate negli anni e che hanno riguardato la sanità pubblica, hanno spogliato il territorio dei più piccoli presidi periferici, dei quali oggi si sente la mancanza. “A Crema abbiamo, ogni anno, una media di 68mila accessi in ospedale – spiega Galmozzi – e siamo 165mila abitanti in tutto. In proporzione, lavoriamo il doppio rispetto al Niguarda di Milano, ma con risorse molto inferiori. E così alla gente si rischia di non dare tutte le risposte che cercano, costringendoli a riversarsi sul privato accreditato. Anche questo ambito però comincia ad andare in saturazione in era post-Covid. L’alternativa? Recarsi da un medico in libera professione e pagare 130 euro per visita. Se non rimettiamo in modo la medicina territoriale – termina Galmozzi – questa è la prospettiva, che tra le altre cose rischia di andare avanti un bel po’”.