Scienza

Coronavirus, dopo sette mesi una cosa è certa: il panico non è mai un buon consigliere

A 7 mesi dall’inizio dell’epidemia di Covid-19 è possibile fare almeno un bilancio epidemiologico preliminare. Secondo l’European Centre of Disease Control and Prevention (Ecdc) alla data del 26 luglio 2020 erano stati registrati in tutto il mondo 645mila decessi attribuiti al Covid-19. E’ difficile per il cittadino contestualizzare questa stima: il numero è grande o piccolo? Certamente noi vorremmo che non morisse nessuno; ma sappiamo razionalmente che tutti i viventi muoiono.

La popolazione mondiale supera attualmente i 7,5 miliardi di persone; se si assume un tasso grezzo annuo di mortalità dell’1,1%, caratteristico dei paesi avanzati, per i quali le statistiche sanitarie sono più affidabili, si può stimare che si siano registrati dall’inizio del 2020 oltre 41 milioni di decessi per tutte le cause; il Covid-19 avrebbe quindi causato circa l’1,6% dei decessi registrati nel mondo dall’inizio dell’anno. Certamente i decessi dovuti al Covid-19 sono sottostimati; ma sono sottostimati anche i decessi totali, perché il tasso globale di mortalità è superiore a quello registrato nei paesi avanzati ed utilizzato per la stima qui riportata.

L’epidemia segue ormai da mesi un andamento stabile, in leggero incremento, e la maggioranza dei casi al momento si registra nel continente americano; tutti i continenti sono stati colpiti e questo rende improbabili picchi improvvisi di grande ampiezza. E’ invece plausibile che la tendenza in atto si mantenga per l’anno in corso e anche oltre, a meno dell’arrivo di un vaccino: ovvero è plausibile che alla fine dell’anno la percentuale di decessi dovuti al Covid-19 rispetto ai decessi totali rimanga nell’ordine stimato, sotto il 2%.

Se nel 2019 ciascuno di noi avesse dedicato un’ora a pensare al proprio rischio di morte, sarebbe giustificato dedicare a questo pensiero non oltre due minuti in più nel 2020, e infatti molti medici in prima linea nella risposta al Covid-19 si sono espressi contro l’atmosfera di indiscriminato terrore. Non si sminuisce qui la drammaticità dell’epidemia e non si nega il carico di sofferenza ad essa associato; semmai si dedica un pensiero a quel 98% di decessi avvenuti al di fuori della luce dei riflettori e perciò ignorati, e soprattutto a quelli dovuti a cause molto più facilmente evitabili di una malattia virale di nuova insorgenza: fame, guerre, povertà, malattie per le quali sono disponibili cure e vaccini.

E’ importante in questo contesto valutare quelle realtà geografiche e sociali nelle quali l’epidemia ha colpito più duramente. Ad esempio in Italia sono stati registrati dall’inizio dell’epidemia oltre 36.000 decessi con un aumento della mortalità rispetto all’atteso nell’ordine del 10%, e nella provincia di Bergamo, nei momenti di picco, la mortalità è risultata quintuplicata rispetto ai periodi non epidemici. L’Eco di Bergamo aveva stimato 5.000 decessi per Covid-19 e un tasso di infezione (misurato dalla risposta anticorpale) del 60%.

Poiché la provincia di Bergamo conta circa 1,2 milioni di abitanti il tasso grezzo di mortalità in un anno non epidemico nell’ordine di 13.000 decessi e il Covid-19 potrebbe averlo incrementato nei primi 7 mesi del 2020 di circa il 65%. Le indagini sugli anticorpi, tuttora in corso, suggeriscono che nella provincia di Bergamo siano stati contagiati (e immunizzati) circa il 60% dei cittadini, mentre il valore medio per l’Italia sarebbe almeno dieci volte più basso.

I dati di Bergamo:

1) sono in linea con le previsioni epidemiologiche pubblicate all’inizio dell’epidemia;

2) dicono che le misure di lockdown a Bergamo hanno avuto un effetto trascurabile, probabilmente perché attuate tardivamente; infatti l’epidemia ha quasi raggiunto il tasso di immunizzazione al quale si spegnerebbe spontaneamente, stimato al 70%;

3) suggeriscono che la letalità della malattia è circa dello 0,7% in buon accordo con molte stime precedenti;

4) porteranno il tasso grezzo annuale di mortalità a circa l’1,5% per il 2020, anziché l’1,1% usuale.

Le prime stime di letalità della malattia vengono dalle popolazioni colpite per prime, che sono spesso anche le più suscettibili all’infezione, per ragioni genetiche, climatiche o di comportamenti sociali; pertanto le prime stime di letalità si rivelano spesso più severe di quelle successive, calcolate su popolazioni più ampie.

La valutazione della gravità dell’epidemia include necessariamente anche criteri soggettivi, ma di certo il panico è stato molto più grande di quanto sarebbe stato giustificato dai fatti e ha portato la gente ad accettare e richiedere misure drastiche, la cui efficacia è stata probabilmente inferiore alle aspettative, mentre le ripercussioni economiche, sociali e politiche sono state e saranno pesantissime. Il panico non è mai un buon consigliere.