Metà politico e metà giudice, il deputato di Italia viva è un doppio figlio d'arte: come lui il padre Enrico fu giudice e ministro con lo Psdi, poi europarlamentare con Forza Italia. Nel 2004 fu intercettato mentre chiedeva voti al nipote di Badalamenti per la rielezione (fallita) a Bruxelles. Anche Cosimo finisce citato in decine di indagini senza essere mai indagato. Quindi si butta in politica: sottosegretario con Fi, poi deputato col Pd, quindi renziano. A tarda sera andava spesso a far visita a Berlusconi, dal quale accompagna anche il giudice Amedeo Franco. Sempre di notte partecipa ai dopocena dell'hotel Champagne per discutere del caso nomine con Lotti e co. Per quei fatti è sotto procedimento disciplinare davanti al Csm, che oggi dovrà decidere sull'istanza di ricusazione da lui presentata nei confronti di chi lo dovrà giudicare. Di Palamara dice: "Di cose ne sa, molte di più di quelle che ha iniziato a dire"
A Palazzo Grazioli lo chiamavano il “geco“, come il rettile notturno che ci vede benissimo pure al buio. Soprattutto al buio. Lo chiamavano così perché aspettava la notte per recarsi da Silvio Berlusconi: prima di entrare, hanno raccontato i bene informati a Tommaso Labate, attendeva dietro alle piante dell’ingresso posteriore della storica residenza romana dell’ex cavaliere. Poi, quando gli ultimi ospiti se ne andavano, si faceva annunciare: “Presidente, il geco è in arrivo”. Il geco era Cosimo Maria Ferri, l’emblema del Patto del Nazareno nel mondo politico-giudiziario. Spedito al governo da Forza Italia, entrato in Parlamento col Pd di Matteo Renzi, ora è un deputato di Italia Viva. Politico con la toga o – se preferite – magistrato che fa politica, Ferri incarna la figura del minotauro: mezzo giudice e mezzo Mister Wolf, come il personaggio di Pulp Fiction che di lavoro risolveva problemi. Quentin Tarantino a un certo punto fa sparire Wolf dalla scena: Ferri, da 15 anni, è sempre lì, determinante sullo sfondo senza che nessuno se ne accorga mai. O quasi.
L’uomo che portava i giudici da Silvio – Il 6 febbraio del 2014 fu lui ad accompagnare il giudice Amedeo Franco al cospetto di Berlusconi. Il magistrato di Cassazione, relatore della sentenza che condannò in via definitiva l’ex premier, ci teneva a dire al suo imputato che quella decisione era “una porcheria“. Oggi sappiamo che Franco tentò addirittura di registrare i suoi colleghi mentre discutevano in camera di consiglio: perché lo fece? O per chi? Il presidente di quel collegio, il giudice Antonio Esposito, ha raccontato al Fatto di essere stato invitato “molto gentilmente da Cosimo Ferri, a Pontremoli, al premio Bancarella. Mancavano due settimane alla sentenza e per motivi d’opportunità declinai l’invito”. Ferri, all’epoca, era già sottosegretario alla Giustizia. Sei mesi dopo quell’invito inopportuno si imbatte in Franco che gli chiede un incontro con Berlusconi: lui – è la sua stessa versione – accetta di fare da segretario e lo accompagna al cospetto del Caimano. Mentre il giudice pronuncia davanti a Berlusconi quelle frasi che oggi leggiamo sui giornali, Ferri è lì seduto che ascolta. Sostiene di non essersi accorto che quel dialogo era registrato. Di sicuro per quell’occasione Cosimo Maria dimentica entrambe le sue nature: quella del politico (addirittura sottosegretario alla Giustizia) e quella di giudice, seppur in aspettativa. Per sei anni, infatti, evita di segnalare il grave episodio al quale ha assistito. Non lo racconta, pare, ad Annamaria Cancellieri, all’epoca ministro della Giustizia. E nemmeno al Csm. “Non avevo alcun obbligo giuridico non essendo nell’esercizio delle funzioni”, sostiene oggi. È solo l’ultimo caso: a un certo punto, infatti, nelle inchieste e nelle vicende più delicate che lambiscono il mondo del potere, il nome del “geco” spunta sempre. In qualche brogliaccio, oppure in una qualche nota di una informativa di polizia giudiziaria, o ancora in qualche racconto: nei fatti che contano il nome di Cosimo Maria Ferri c’è sempre. C’è nell’inchiesta su Calciopoli, viene pronunciato nelle intercettazioni sul caso Trani-Agicom, nei nastri sulla cosiddetta P3, in quelli delle indagini su Silvana Saguto. E poi ovviamente spunta nell’indagine che più di ogni altra imbarazza il mondo della magistratura: quella su Luca Palamara e il caso nomine al Csm. Ferri non è mai indagato, mai sotto inchiesta, ma c’è: è lì dove qualche cimice o qualche trojan registra. Mister Wolf risolveva problemi, Cosimo Maria Ferri è spesso nei paraggi di qualche rogna.
Un “geco” all’hotel Champagne – Essendo il geco un animale bravo a mimetizzarsi di notte in pochi ci hanno fatto caso, ma c’era anche Ferri all’incontro notturno dell’hotel Champagne del 9 maggio 2019, quando Palamara, l’imputato Luca Lotti – deputato del Pd come era lo stesso Ferri all’epoca – e altri cinque consiglieri del Csm si arrovellavano per teleguidare la nomina del nuovo procuratore di Roma. Distratti dalla loquacità delle altre persone presenti, in pochi si ricordano che a quel dopocena c’era anche lui, l’uomo cerniera tra le toghe e le aule parlamentari: solo che a differenza di Lotti e Palamara è molto più avaro di parole. “Se va lo schema Viola noi poi dobbiamo avere il nome per Perugia e dobbiamo vedere quando inizia la storia degli aggiunti”, è una delle sue frasi più lunghe, registrate dal trojan installato sul cellulare di Palamara. Anche per queste parole Palazzo dei Marescialli lo ha messo sotto procedimento disciplinare: lo accusano di aver “condizionato l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quali la proposta e la nomina di uffici direttivi di vari uffici giudiziari da parte del Consiglio superiore della magistratura”. Proprio oggi il Consiglio superiore dovrà decidere sull’istanza di ricusazione da lui presentata nei confronti di chi lo dovrà giudicare.
Il geco però non è solo un animale che ci vede benissimo nell’oscurità: è anche un rettile molto agile. Ne ha dato già prova il 10 luglio scorso: si è dimesso dall’Associazione nazionale magistrati, poco prima di ricevere una pesante sanzione o magari anche l’espulsione, come è successo a Palamara. Al Csm, invece, ha usato un’altra tattica: ha ricusato tutto il Consiglio. Secondo lui nessuno dei consiglieri può giudicarlo perché essendo tutti parti lese del suo presunto “condizionamento“, intende chiamarli a testimoniare uno ad uno. Un bel problema per quello che era annunciato come il procedimento in cui la magistratura avrebbe processato se stessa. Un intoppo forse prevedibile stando a quanto Ferri raccontava al Corriere della Sera qualche settimana fa: “Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire“.
Ferri senior, il ministro dei 110 all’ora e i voti chiesti ai Badalamenti – Nato a Pontremoli nel 1971, doppio figlio d’arte di Enrico, dal potente genitore eredita le sue due passioni: quella per la toga e quella per il seggio parlamentare. Ferri senior fu giudice e leader della corrente di Magistratura indipendente, che a seconda dei momenti è la più a destra o la più moderata nel mondo delle toghe. Ma Enrico Ferri fu pure politico di primo piano del Psdi, che lo fece diventare ministro dei Trasporti del governo De Mita: è lui l’inventore del limite dei 110 all’ora in autostrada. Ed è a quella velocità che l’ex giudice socialdemocratico ha dribblato le curve tra la prima e la seconda Repubblica: passa dal Ccd, segue per un periodo Clemente Mastella per poi arrivare a convertirsi al berlusconismo. Nel 1999 Ferri senior viene eletto all’Europarlamento con Forza Italia. Cinque anni dopo si ricandida ed è in quei mesi del 2004 che il Ros di Firenze s’imbatte più volte nel suo nome. A farlo è Gaspare Ofria, un imprenditore siciliano trapiantato in Toscana, che sarà poi arrestato con accuse di mafia. È il figlio di Vito Ofria, considerato un boss di un certo spessore, e Maria Giuseppa Badalamenti, nipote di don Tano, il boss di Cinisi che ordinò l’omicidio di Peppino Impastato (ma è morto quand’era stato condannato solo in primo grado). Tra il 2002 e il 2004 Ofria si vanta più volte di conoscere Ferri, di averlo incontrato, una volta persino davanti al Parlamento. Poi, il 20 marzo del 2004, in piena campagna elettorale per le europee, i carabinieri registrano il nipotino di Badalementi mentre parla al telefono con un altro interlocutore, che gli dice: “Sono qui davanti all’onorevole Enrico Ferri che sta telefonando e ora te lo passo“. Passano pochi secondi e al telefono si sente una voce che per il Ros è senza dubbio quella dell’ex ministro. L’uomo di Forza Italia e quello dei Badalamenti chiacchierano come se si conoscessero già bene. Poi Ferri senior dice: “Il momento che è un po’ difficile…mi raccomando i voti dei Siciliani“. “Io guarda che ci penso sempre”, risponde Ofria. “Non è che scherzo sono buoni tutti i voti“, continua il padre di Cosimo. E il siciliano risponde: “Però poi insomma vedete di pensare anche un po’ a me“. La richiesta di appoggio sarà ripetuta da Ferri alla vigilia del voto: “T’interessi?”, dice l’ex ministro al telefono a Ofria. Che assicura: “Qualcosa raccattiamo, dai“. Non si sa se Ferri senior fosse a conoscenza dell’identità del suo interlocutore. Di sicuro non verrà rieletto a Bruxelles. E Ofria commenterà: “Lui c’ha pensato tardi…io gli ho dato…diciamo…una manina, potevo dargli veramente una mano conosco delle famiglie diciamo socialmente importanti“.
I fratelli Ferri: Milan, G8 e condanne – Di sicuro una bella mano alla famiglia Ferri è sempre arrivata da Arcore. Nel 2012 è il Milan di Berlusconi che assume Filippo Ferri, figlio maggiore dell’ex ministro, come nuovo responsabile per la sicurezza dei rossoneri: fu preso anche per “sorvegliare” le intemperanze extra calcistiche di Mario Balotelli. Chi meglio di lui, ex poliziotto e già capo della squadra mobile di La Spezia durante il G8 di Genova, condannato a 3 anni e 8 mesi di carcere per falso aggravato nei fatti della scuola Diaz? Con Forza Italia, invece, è stato eletto al consiglio regionale della Toscana il secondogenito di Enrico Ferri, Jacopo Maria, avvocato, già condannato a un anno per tentata truffa. Sono questi i Ferri, potente dynasty della Lunigiana in cui Cosimo Maria era solo il fratello più piccolo. Ma anche quello più promettente. Dal padre eredita voti e influenza in Magistratura Indipendente, corrente alla quale un tempo appartenevano Paolo Borsellino, Marcello Maddalena, Pier Luigi Vigna, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita (poi usciti in polemica con Ferri per fondare Autonomia e Indipendenza). Con Ferri quella corrente dalle nobili origini diventa una macchina da voti, utile anche a ottenere incarichi extragiudiziari.
Il caso Saguto: “Quand’ero giovane credevo che Mi fosse indipendente” – La legislatura al Csm si chiude, ma Ferri fa in tempo a fare parte della quinta commissione che propone Silvana Saguto come nuova presidente delle sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. È la zarina dei beni confiscati alla mafia che anni dopo finirà sotto inchiesta proprio per la gestione delle ricchezze dei boss. Nell’indagine Saguto, manco a dirlo, finisce pure il nome di Ferri, nel frattempo diventato sottosegretario alla Giustizia. La giudice sotto inchiesta viene intercettata mentre racconta l’esito di un incontro con lui: “Bene, bene, è andata bene. Gli ho detto tutte cose, vuole mandato pure tutto lui, dice che dobbiamo organizzare… vediamo che fa Natoli (presidente della Corte d’Appello di Palermo, ndr)… poi vediamo di organizzare un’intervista, però non con me. Dice: deve essere qualcun altro che parla, non tu che sei già abbastanza esposta”. Pure lei iscritta a Magistratura indipendente, in un’altra intercettazione Saguto fa una descrizione lapidaria della corrente guidata da Ferri: “Quando non capivo niente ero di MI perché c’era Paolo Borsellino e pensavo che MI fosse indipendente, tempo tre ore circa mi sono dovuta ricredere di corsa, ma che ne sapevo io giovane uditrice come funzionava?”.
L’acchiappavoti delle toghe che attaccava i colleghi in politica – Finito l’incarico al Csm, Ferri viene assegnato al tribunale penale di Massa, sezione distaccata di Carrara. Ma occuparsi solo e soltanto di sentenze è riduttivo per uno come lui, che diventa subito segretario generale di Magistratura Indipendente. Alla prima occasione – nel 2012 – si candida all’Anm e questa volta è un record senza precedenti: piglia 1.199 voti. Vorrebbe sostituire Palamara al vertice del sindacato della toghe, ma non lo vogliono. Il settimanale Panorama gli dedica un’intervista intitolata: “Il più amato e odiato dai magistrati“. Lui si lamenta della mancata elezione a presidente dell’Anm: “I maniaci tirano ancora fuori Agcom, Calciopoli, P3, tutte storie senza senso”. Nel 2013, quando Pietro Grasso e Antonio Ingroia si candidano alle politiche, commenta: “I magistrati hanno diritto di candidarsi ma è ora il momento di riflettere su nuove regole per tutelare la credibilità della magistratura davanti ai cittadini”.
Da Forza Italia al Pd, il politico in toga modello Nazareno – Quelle parole non possono sfuggire agli scout di Arcore: nasce il governo di Enrico Letta e Berlusconi lo indica come sottosegretario alla Giustizia. Poi Forza Italia esce dalla maggioranza ma il “geco” rimane al suo posto: prima perché si definisce un “tecnico“, poi perché si avvicina sempre di più a Renzi. Sono gli anni del Patto del Nazareno di cui Ferri è la trasfigurazione sul fronte della politica giudiziaria: si professa indipendente ed è dunque l’uomo-cerniera perfetto non solo per le toghe in politica ma pure per saldare il nascente renzismo con l’immortale berlusconismo. Contatti e qualità che lo terranno in via Arenula per tutta la legislatura, pure con Paolo Gentiloni premier. Nessuno avrà nulla da ridire neanche nel 2014, quando Ferri da sottosegretario alla Giustizia viene beccato a fare campagna elettorale via sms per le elezioni al Csm: invita a votare per due suoi fedelissimi di Magistratura indipendente, poi ovviamente eletti. Altro che la “credibilità della magistratura davanti ai cittadini” tirata in ballo quando a candidarsi erano Grasso e Ingroia. Sembrava dovesse nascere uno scandalo senza precedenti: è il tipico lampo senza neanche una goccia di pioggia. Non succede nulla: Ferri scompare dalle pagine dei giornali, torna sullo sfondo, dove sta più a suo agio. Nel 2018 incassa da Renzi un seggio sicuro alla Camera nelle liste del Pd. Poi segue il senatore di Scandicci nell’avventura con Italia viva.
Le notti del Geco coi due Luca – Da quando è entrato in Parlamento, Ferri gira parecchio, soprattutto di notte, in compagnia dei due Luca: Lotti e Palamara. Nella primavera del 2019 il primo è interessatissimo alla nomina del nuovo procuratore di Roma che dovrà reggere l’accusa nei suoi confronti al processo Consip. Anche per questo motivo il secondo organizza incontri e dopocena con i consiglieri del Csm che finiranno poi travolti dallo scandalo. A quegli incontri notturni c’è pure lui: Cosimo Ferri. Che si giustificherà: “La sera uno può fare quello che vuole ed incontrare chi vuole“. Solo che l’amico Palamara ha un problema: ha un trojan nel cellulare. È per questo motivo che oggi il “geco” deve difendersi per la prima volta davanti al Csm. È a Ferri, per esempio, che Palamara scrive “Cantone a Perugia va evitato“. Perugia è la procura che ha messo sotto inchiesta Palamara: al suo vertice sarà eletto dal Csm proprio Raffaele Cantone. Su quella chat Ferri ha ricordato al Corriere: “Se ci fate caso, la frase ‘da evitare assolutamente’ riferita a Cantone la scrive Luca. Io non gli avevo risposto nulla“. Il geco di notte ci vede benissimo. Ma è bravo anche a non farsi vedere.