di Serena Verrecchia

Eravamo messi talmente male in Italia che appena è arrivata una persona garbata nei palazzi del potere l’abbiamo spacciata per un tarocco, una truffa. Il fantoccio un po’ ebete di chissà quali misteriose e inintelligibili forze oscure. Gli abbiamo dato dell’incapace e maldestro perché non strillava e non si infervorava con le polemiche. Abbiamo provato a scrollargli addosso qualche provocazione spicciola, sperando che si scansasse e ci lasciasse guardare cosa c’era veramente dietro.

L’abbiamo scrutato col naso arricciato, dall’alto in basso, la brutta copia di un professore troppo allegro e impacciato che in mezzo alla gente che conta non ci sapeva stare. L’abbiamo reputato inadatto, perché quando gli altri urlavano, lui parlava a voce bassa. Quando gli altri si scannavano per arraffare le briciole, lui ponderava in silenzio, analizzava senza far schizzare lo spread. Quando gli altri maciullavano uno slogan dopo l’altro, lui sceglieva le parole, si prendeva il tempo per costruire una frase sensata, formulava pensieri. Pensate un po’ la rivoluzione.

Giuseppe Conte ci è sembrato subito insipido, scialbo, anonimo. Come se la gentilezza al potere fosse un tabù, una sorta di divieto sacrale, una scelleratezza, un’eresia. Un professore che legge i dossier e non ama la televisione, un capo di governo che entra in punta di piedi in casa di un filosofo (Emanuele Severino) e fa domande come il più curioso degli studenti. Uno, insomma, troppo distante dalle coordinate politiche di un Berlusconi – vivaddio – o di un Renzi – che Dio ce ne scampi – ma anche dal grigiore tetro di un Monti, che pure era estraneo alla politica.

Uno forse troppo distante dalla politica e basta, o quantomeno da quella politica che negli ultimi anni ha notevolmente abbassato l’asticella delle nostre aspettative e demolito la fiducia in qualsiasi tipo di classe dirigente.

Ma ai politici andava bene così. Giuseppe Conte poteva anche essere una persona seria, elegante, di buone maniere e scrupolosa, l’importante era che la gente non se ne accorgesse troppo. Così hanno provato ad inabissarlo sotto i decibel delle loro controversie ebeti, schizzandogli addosso i rimasugli di ogni alterco fuori posto, insozzandolo con la scia delle loro polverose bagarre.

Poi, quando il Paese ha avuto bisogno di un leader vero e non di un volto nebuloso da piazzare sotto i trend topic di giornata, ci siamo accorti finalmente di chi fosse davvero Giuseppe Conte: un politico con la stoffa del vincente.

Si è trovato impelagato in una delle più terribili catastrofi degli ultimi settant’anni, ma non l’abbiamo mai sentito lamentarsi. Nemmeno una volta. Non abbiamo sentito lagne, recriminazioni, accuse scombinate. Non ci ha additato un nemico immaginario per allontanare da sé il peso delle sue decisioni.

Ha parlato sempre con molta schiettezza. È stato chiaro, sincero, deciso, talvolta anche duro. Ci è apparso stanco e provato, ma mai arrendevole. Conte è il premier che non sbraita, che non urla, che non si sottrae alle proprie responsabilità. E che chiede scusa quando sbaglia. È uno che non si ferma, ma che continua a macinare, a muoversi, a correre. Forse persino troppo per chi gli sta intorno. E infatti non sono mancati i mugugni, i brontolii, le voci di protesta contro un presidente che costringe i suoi ministri a fare le 6 di mattina anche in piena estate.

Giuseppe Conte “l’avvocato del popolo”, il “professore prestato alla politica”, il premier filosofo. Il leader che ha restituito a questo Paese un minimo di credibilità. La gentilezza al potere. Considerando i tempi e la concorrenza, dovremmo pensare davvero di tenercelo stretto.

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