Molti tra coloro che invocano il Mes lo fanno con un (nobile) secondo fine. Il primo fine dichiarato, ovviamente, è la asserita convenienza del tasso di interesse bassissimo del Meccanismo europeo di stabilità rispetto a quello ottenibile sui mercati dei titoli di stato. Il secondo fine, invece, riguarda l’obiettivo da perseguirsi attraverso i fondi in questione.
Lo abbiamo definito “nobile” perché in ballo c’è la sanità pubblica: soprattutto dopo la tempesta del Covid-19, persino i più convinti sostenitori del libero mercato e della competitività si sono resi conto di come un servizio sanitario realmente generalista, inclusivo e gratuito sia imprescindibile per uno Stato degno di tale nome.
Fatte queste premesse, una domanda s’impone. Se davvero il Ssn è così importante, perché lo si è definanziato per così tanto (troppo) tempo? Al punto da essere disposti a dichiarare lo stato di dissesto della casse pubbliche e la difficoltà dello Stato di finanziarsi sui mercati (pre-condizione di qualsiasi accesso al Mes) pur di rimetterlo in carreggiata?
A tal proposito, i numeri e le statistiche sono impietose. E ci rivelano come la salute dei cittadini italiani sia stata, in tempi recenti, colpevolmente derubricata agli ultimi posti della gerarchia delle priorità di spesa; anche a prescindere dalle (pur indiscutibili) tagliole rappresentate dalla moneta unica, dalle regole Ue e dalla maledetta austerity. Per capirlo, è sufficiente rifarsi alle conclusioni del 15esimo rapporto CreaSanità dell’Università di Tor Vergata, edito nel dicembre dello scorso anno.
Cominciamo col dire che, nel 2018, la spesa sanitaria corrente italiana ha raggiunto la somma media di 2.560 euro pro-capite. Stando ai dati diffusi dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), tale spesa è inferiore del 32 per cento rispetto alla media (3.765 euro) dei Paesi entrati nell’Unione europea prima del 1995. Quindi parliamo, grossomodo, degli stati dell’Europa occidentale. Non solo: la crescita media annua della spesa sanitaria nel nostro paese, tra il 2000 ed il 2018, è stata pari al 2,5 per cento: un punto percentuale sotto la media (3,5 per cento) delle nazioni europee dell’Ovest.
Un’altra “rivelazione” dello studio in oggetto è in grado di smentire d’emblée i più triti luoghi comuni sulla asserita “primazia” del nostro modello sanitario statale in ambito europeo: mentre la percentuale di finanziamento pubblico sul sistema complessivo (pubblico e privato) dei paesi dell’Europa occidentale si assesta su una media dell’80 per cento, quella italiana si avvicina, più o meno, al 74 per cento dei componenti dell’ex blocco di Varsavia.
Fino a qui, i numeri. Ora, bisogna capire le ragioni; che sono almeno due. La prima ha a che fare con le dimensioni colossali del nostro sistema di salute pubblica: un corpaccione così grosso e “pesante”, in termini di spesa, da attrarre, come la calamita il ferro, le affilate cesoie dei politici ossessionati dalla spending review. La seconda ragione è molto meno evidente al grande pubblico, ma anche assai più idonea a spiegare l’inesorabile declino che, nell’ultimo ventennio, ha colpito il servizio sanitario nazionale.
Sforbiciare, o risparmiare, sulle cure, sulla prevenzione, sulla diagnostica, sui medici, sui posti letto, sugli ospedali, sugli infermieri – insomma sulla nostra salute – presenta il grande vantaggio di poter contare, contestualmente, sull’alibi perfetto. O, per meglio dire, su una eccellente “risposta” preconfezionata agli allarmi circa il dissesto del sistema sanitario.
Dopotutto, dov’è il problema se – per colpa dei tagli di cui sopra, sovente negati con autentico sprezzo del ridicolo – il servizio pubblico va sempre peggio? La soluzione è servita su un piatto d’argento, anzi d’oro: e si tratta del secondo pilastro della sanità integrativa e del terzo pilastro delle polizze sanitarie.
In entrambi i casi, parliamo dell’appetitoso business della white economy (la cosiddetta economia “bianca”). La nostra classe politica degli ultimi tre lustri – indipendentemente dalla casacca di appartenenza – con una mano ha tolto ai cittadini la tutela del pubblico e, con l’altra, ha offerto loro la ciambella di salvataggio del modello privato.
Di più: spesso – pensiamo al caso delle cliniche convenzionate, della sanità integrativa o del project financing per la costruzione dei nosocomi – gli amministratori dello Stato e degli enti locali, responsabili dell’eutanasia del servizio pubblico, hanno avuto anche i loro bei tornaconti.
E ciò attraverso assai remunerative cointeressenze nell’alimentare l’inesorabile espansione degli affari privati. Insomma, il “martirio” del modello sanitario pensato dai padri costituenti del 1948, e realizzato dalla legge nr. 822 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, è spiegabile non solo ricorrendo alle “cause”, ma anche guardando agli “scopi”. E né le une né gli altri, purtroppo, sono nobili come le sbandierate giustificazioni di chi agogna il Mes.