I corpi senza vita dell’attivista ambientale Otilia Martínez Cruz e del figlio ventenne, Gregorio Chaparro Cruz, sono stati trovati fuori dalla loro casa nella città di El Chapote, nel nord-ovest del Messico, il 1 maggio 2019. Uccisi da tre uomini armati assoldati presumibilmente dai taglialegna, perché cercavano di fermare la deforestazione illegale della loro terra, nella Sierra Madre. Erano parenti di Julián Carrillo, indigeno rarámuri e difensore del bosco di Coloradas de la Virgen, assassinato nel 2018. A ottobre, i giornalisti Martua Parasian Siregar e Maraden Sianipar sono stati accoltellati a morte vicino a una piantagione di olio di palma in Indonesia, chiusa dal governo per disboscamento illegale, dopo aver sostenuto le comunità locali in una controversia con la società che gestisce il terreno. Il 1 novembre scorso, in Brasile, il 26enne Paulo Paulino Guajajara è stato assassinato da un gruppo di almeno cinque taglialegna, che ha teso un’imboscata a lui e ad un altro membro della tribù Guajajara nello stato di Maranhão. Entrambi erano Guardiani della Foresta, un gruppo che lavora per combattere le bande illegali di disboscamento che invadono le terre indigene. Sono solo alcuni dei 212 omicidi avvenuti nel 2019 e denunciati nel nuovo rapporto di Global Witness. Non solo si tratta del numero più alto di attivisti ambientali uccisi mai registrato in un solo anno, ma nel dossier si lancia l’allarme rispetto agli effetti della pandemia, che sta facendo aumentare i rischi.
IL RAPPORTO – Di fatto, ogni settimana almeno quattro persone nel mondo vengono uccise per difendere l’ambiente. Più della metà degli omicidi del 2019 sono avvenuti in Colombia (64), altri 43 nelle Filippine. Paesi a rischio sono anche il Brasile (24 uccisioni nel 2019), Messico (18 vittime), Honduras (14), Guatemala (12). Otto le vittime in Venezuela, sei in India, cinque in Nicaragua, tre in Indonesia e due nella Repubblica democratica del Congo, in Burkina Faso, Romania e Kazakhstan. Uganda, Perù, Cambodia, Bolivia, Ghana, Kenya e Costa Rica sono stati i Paesi teatro di un omicidio, considerando però solo i dati ufficiali, che in alcuni di questi Stati sono molto parziali. Oltre due terzi degli omicidi, dunque, ha avuto luogo in America Latina, che è stata costantemente classificata come la regione più colpita da quando Global Witness ha iniziato a pubblicare i dati, nel 2012. Lo scorso anno, la sola regione amazzonica ha contato 33 morti. Quasi il 90% delle uccisioni in Brasile sono avvenute in Amazzonia.
In Honduras, gli omicidi sono aumentati da 4 nel 2018 a 14, rendendolo il Paese pro capite più pericoloso nel 2019. Il settore minerario è quello più a rischio: sono 50 gli attivisti uccisi che lavoravano in questo settore. L’agroindustria continua a provocare distruzione, con 34 ambientalisti uccisi e l’85% di tali attacchi registrati in Asia. E il disboscamento è stato il settore con il più alto aumento di omicidi a livello globale dal 2018, con l’85% in più di attacchi registrati contro chi si oppone all’industria e 24 attivisti uccisi nel 2019. L’Europa rimane la regione meno colpita, con due persone uccise, entrambe impegnate a fermare il disboscamento illegale in Romania. I popoli indigeni continuano a essere a rischio sproporzionato di rappresaglie, con il 40% delle vittime appartenenti a comunità indigene. Tra il 2015 e il 2019 oltre un terzo di tutti gli attacchi mortali ha colpito gli indigeni, anche se queste comunità rappresentano solo il 5% della popolazione mondiale.
IN COLOMBIA È UNA STRAGE – Secondo l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ci sono diverse ragioni alla base della crescente ondata di violenza in Colombia, come le sfide poste dall’attuazione dell’accordo di pace del 2016 tra il governo e gli ex guerriglieri delle Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia), tra cui la riforma del territorio e programmi volti a incoraggiare gli agricoltori a scambiare colture illegali con raccolti legali. I conseguenti cambiamenti nelle dinamiche di controllo dei territori dopo la guerriglia e il vuoto lasciato dai miliziani stanno aumentando tensioni e violenze, anche perché ad approfittarne sono gruppi armati illegali che rifiutano invece la pace. Va ricordato, infatti, che una parte fondamentale dell’accordo erano gli incentivi per allontanare gli agricoltori dalla coltivazione della coca, tagliando così la produzione di cocaina e interrompendo il commercio di droga che aveva alimentato il conflitto.
Non è un caso se 14 degli attivisti uccisi nel 2019 erano impegnati proprio sul fronte della sostituzione delle colture. Nel mirino è finita anche Francia Márquez, premio Goldman 2018, dunque nota a livello internazionale per le sue battaglie ambientaliste e per i diritti degli afrocolombiani. A maggio 2019 ha subìto un attacco durato 15 minuti da parte di un comando e durante il quale è stata lanciata una granata contro lei e i leader del suo gruppo, nella città di Lomitas. È viva perché lo ha capito in tempo e si è buttata a terra. D’altronde non è stato il primo attacco, è accaduto anche nel corso di una campagna per fermare l’estrazione illegale a ‘La Toma’ nella regione di Cauca, nel sud-ovest della Colombia: è stata minacciata, molestata e infine costretta a lasciare la sua casa.
I NUOVI RECORD DELLE FILIPPINE – Anche le Filippine, dove la situazione per gli attivisti è peggiorata soprattutto dall’ascesa al potere, nel 2016, del presidente Rodrigo Duterte. Tra le cause, si spiega nel rapporto, “l’inesorabile diffamazione degli attivisti da parte del governo e la diffusa impunità per i loro aggressori”. Più della metà degli attivisti impegnati sul fronte del settore minerario proveniva da comunità colpite dalle miniere in America Latina, ma sono le Filippine il Paese con la maggior parte degli omicidi (16 morti). Non solo. Se l’Asia è indicata costantemente come la peggiore regione per gli attacchi nel settore agricolo (l’85% nel 2019, registra Global Witness), quasi il 90% di questi è avvenuto nelle Filippine. Emblematica la storia di Datu Kaylo Bontolan, un leader Manobo ucciso il 7 aprile, durante un bombardamento militare a Kitaotao, nel Mindanao settentrionale. Aveva condiviso con Bai Bibyaon Ligkayan Bigkay, unica donna capo della storia dei popoli Manobo, la battaglia per proteggere le foreste pluviali della catena montuosa Pantaron, una delle più grandi aree di biodiversità delle Filippine, ma dopo la sua morte, l’esercito (vicino alle imprese estrattive) lo ha definito un criminale politico.
(immagine d’archivio)