La creaturina somigliava a Joyce Carol Oates. Aveva un viso piccolo e scarnificato, come ignaro della corruttibilità. Aveva sempre freddo, era una mistica, presumi. C’era in lei qualcosa di sovrumano. La carne non la riguardava, il suo stesso corpo ne era privo. Era deforme, coperto, le sue ossa, le gambe, le braccia, erano degenerate dentro sindromi sconosciute. Era piegata, quando riusciva a tenersi su. Poi tornava nel suo letto. Il professore entrava sbrigativo e corrucciato, nella stanza in penombra, via via, andate, rimbrottava a una masnada di derelitti. E andavate tutti via, ma non appena lui si chiudeva in camera, con i suoi naturalisti francesi, Radio Radicale in frequenza, tornavate da lei.

La porta era sempre aperta. Terzo piano. Siedi sul suo letto. La vecchia bosniaca si accomodava sulla poltrona di velluto Damasco dove altre volte avrebbe dormito Pietro nel suo sonno alcolico. La vecchia chiedeva qualcosa. Tutti chiedevate qualcosa. Tu? Tu chiedevi l’amore. Volevi che te lo spiegasse. Non chiedevi l’amore di quell’uomo, volevi capire. Eri il soldato che ha saltato il fosso, inarcato la schiena durante l’impresa, colpito alla fine, lungo la parabola. Colpito. Eri dentro una guerra. Non ti entrava in testa che bisognava accomiatarsi nella disperazione. Stendersi. Abbandonarsi. Non puoi far nulla nulla. Non tu.

La vecchia ti faceva impressione, aveva l’aria di una zingara scaltra. Ma non dovevi chiamarla zingara, si arrabbiava moltissimo. La zingara eri tu, per il condominio del palazzo vittoriano.
Oscar indossava ridicole lenti colorate. Faceva marchette. Aveva un gran loquacità. C’era odore di legna bruciata. Era la legna che bruciava al campo e Oscar e la vecchia l’avevano indosso. Esalazioni di miseria, ostinazione e fierezza nella cattiva sorte. Cos’è la felicità?

Non te lo chiederai ancora, spero. C’è una poetica che ti gira intorno, sempre la stessa, ti infila le budella, hai spade conficcate ovunque. E tu piuttosto, tu, dovevi essere solo una madre, ma per quel bastardo ubriacone. Poi dovevi togliere il disturbo.

Leggi Carrère.

Solzenicyn aveva una sola poetica, il gulag. Era un testimone. Non era il dissidente formale e più contemporaneo, che al massimo avrebbe guardato al coraggio antenato del prigioniero come all’ardimento di un Cavaliere della resistenza. Il realismo sociale ingannava le coscienze. Non c’era coscienza senza la sola poetica del gulag. Capisci?

Tu sei una testimone. Non potevi che girarci attorno attorno e crepare di malinconia o a dibatterti fino alla nevrosi sulla ragione che tutto ti ha tolto, nel momento apicale in cui il soldato ha lanciato il suo coraggio, inarcato la schiena, superato il terrapieno, abbattuto i torrioni. E non hai più nulla, altro. Niente. Ripeti all’infinito. Niente. Dalla creaturina c’era un disordine glorioso. La vecchia. A volte Pietro. Pietro incespicava sulle parole, non sapeva come fottere il mondo per una bottiglia di liquore. E gli altri. Gli altri erano una marcia stanca e cupa. Hai osservato stranita ogni possibilità di miseria. La miseria morale era quella che ti seduceva di più.

Allora ti alzavi dall’angolino del letto dove sedevi e lasciavi il posto a qualcun altro. Ti sistemavi accanto alla porta, sotto lo stipite. E questa eri, dimessa, confusa. Il professore fumava in cucina. C’era quell’uomo, l’ubriaco, non Pietro, l’altro, sai chi. Lui, sì. Indossava anelli da criminale. Lo era. Aveva fame, il professore preparava il brodo della sera. Rimpiangevi quel che non avresti mai avuto. Devi notare, nelle tue asserzioni da melodramma, la propensione compiaciuta e stucchevole al mai, che difficilmente sostituisci con “sempre”.

Accendevi una sigaretta, uscivi in balcone, la vicina di fronte era già lì, nel ballatoio comune, ti spiava con sospetto, così ti pareva. Lei non ti chiamava “zingara”, ma aveva sentito alcune voci sul tuo conto. La creaturina si metteva in casa gente sbagliata, pare andasse bisbigliando al professore, se casualmente lo incrociava per la via. Gente sbagliata.

A qualche centinaio di metri, dal palazzo vittoriano, un altro tipo di caos si svolgeva e corrompeva la tua pericolosa vaghezza. Lì cercavi il significato. Cosa volevi guadagnarci alla fine di tutto? Dentro i giardini pubblici, il caos era vera perdizione: l’ubriachezza fu il sigillo di quegli anni. Ogni dipendenza l’hai ricevuta similmente a un regalo ammirevole eppur scelto per la persona sbagliata. Ma tu non puoi dire, non puoi sapere. Hai ricevuto.

Attraversi il grande parcheggio, indossi le ballerine dorate, con la punta consumata, vorresti salire al piano della creaturina. Vorresti confidarle l’inenarrabile mestizia che ti avvince e non trovi la consolazione. Hai bisogno della consolazione. Non trovi la risposta e le Scritture e Isaia. Non trovi la consolazione.

Sei magrissima, quasi quanto la creaturina. Quanti anni aveva la creaturina in tutti quegli anni?
Il poliziotto urlava di andar via, ricordi? Andate via, balordi! Lui – l’altro, sì, lui – si inginocchiava sull’asfalto bruciante, un fiore dietro l’orecchio. Era ubriaco. Voleva bruciarsi, ardere come un tizzone, l’empio nella forca, davanti ai tuoi occhi.

C’è un’upupa la mattina, d’estate, sempre lei, ti inonda di gravosità. Così chiudi la finestra, anche se fuori è un altro giorno.

(continua)
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