di Cristiano Di Salvo
Forse a noi psicologi piace fare (ogni tanto) le cassandre della situazione, o magari ci sentiamo in colpa non appena pensiamo di avere un punto di vista interessante da proporre. Quello che posso affermare con certezza è che, nel mio piccolo, penso che il dibattito sul sociale vada continuamente alimentato, come fosse il fuoco del camino in un inverno particolarmente gelido.
Quando i comignoli d’Europa esalavano miasmi di carbone, a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, e la psicoanalisi stava faticosamente nascendo da mamma neurologia, papà Freud sosteneva che la salute psicologica di un uomo consisteva nella capacità di “amare e lavorare”. Tale affermazione iper-condensata, come molte pubbliche affermazioni di Freud, è rimasta viva per più di un secolo, a volte nella forma emendata da Kohut “amare e lavorare, sì, ma con soddisfazione“.
Quello che gli psicoanalisti affermano, in termini meno succinti, è che l’uomo o la donna, per essere considerati in salute (psichicamente) devono poter accedere alle proprie parti generative, relazionali e creative, oltre l’istintualità che ci permette la sopravvivenza. Perché “amare” e “lavorare”? Perché sono attività complesse, non lineari.
L’amare non ha una definizione univoca, si amano tante persone nella vita, di tanti amori diversi, ma l’amare comporta la messa in campo di una quantità rilevante di energie, cui l’individuo sano deve poter accedere. Amare è certo l’innamorarsi del partner, ma è anche il potere gestire i conflitti, poter vedere i propri aspetti in ombra, poter scoprire cose non conosciute dell’altro ma anche di sé.
Tutte queste “attività” e tante altre ancora, per il padre della psicoanalisi, sono innanzitutto dipendenti dalla possibilità di avere energie da investirvi, energie “libidiche” nella terminologia psicoanalitica. Per la psiche poter fare un investimento “erotico” (non pensiamo solo al sesso, naturalmente) è un’attività tremendamente faticosa, bisogna infatti che l’individuo abbia l’energia per andare oltre tutte le resistenze al cambiamento che esso stesso mette in atto per difendersi dalle asperità del mondo in cui vive. Si tratta però di uno sforzo necessario, che ci permette di andare oltre l’autoreferenzialità.
In tale ottica “lavorare” non assume più la connotazione di “doversi guadagnare da vivere” (molto simile a “dover guadagnare il diritto alla vita”), ma diventa anche esso atto erotico e generativo, che assume significato non soltanto nella contropartita del denaro, ma si arricchisce di un plusvalore. Il lavoro diventa relazione sociale e psichica, in cui il soggetto crea beni e/o servizi per l’altro, che mediante un medium (il denaro) riconosce il soggetto stesso. E potrebbe essere proprio questo riconoscimento a soddisfare il nostro naturale narcisismo, più del medium-denaro.
In quanto psicologo mi faccio spesso domande su campi più ampi rispetto a quello in cui sono specializzato e molto spesso mi capita di riflettere sulla possibilità che alcuni fenomeni contengano gli echi di quanto avviene negli individui e nei piccoli gruppi.
Allora mi chiedo quale possa essere lo stato psichico di quell’8,4% della popolazione della nostra Italia che si trova oltre la soglia di povertà assoluta (parliamo di 5.040.000 persone, con cui potremmo riempire 1.75 città di Roma), o quello del 15% di persone oltre la soglia della povertà relativa (9.054.000 persone, o 3.15 città di Roma).
Ma mi chiedo anche come sia possibile concentrarsi tanto sul medium, sul denaro, tanto da accumularne cifre talmente grandi da non permettere all’amore e al lavoro di tutti di potersi esprimere “sufficientemente bene”, come uno scambio continuo e sicuro di valori, con tutti gli intoppi del caso, certo, ma senza ostacoli insormontabili.