Poco distante c’erano i Mauri. Carlo era un perito meccanico di trentadue anni. Sua moglie, Anna Maria Bosio, ventotto, era una maestra e con loro c’era il figlio, Luca, sei. Venivano da Como e la vigilia dell’attentato, venerdì 1° agosto 1980, erano partiti in auto da Tavernola, che affaccia sul lago, per raggiungere un villaggio turistico a Marina di Mandria, nel tarantino. Però, in tarda serata, nei pressi di Bologna erano stati tamponati e la vettura venne portata in un’autofficina di Casalecchio di Reno.
Trascorsero la notte in macchina e il mattino dopo chiesero a Vittorio, il fratello di Anna Maria, di andare a prenderli alla stazione di Brindisi. Lui, puntuale, si presentò all’appuntamento e aspettò fino a mezzanotte il loro arrivo. Inutilmente. Horst Mader era un operaio di trentasei anni che lavorava per le ferrovie tedesche e che veniva da Haselhorf, Westfalia. Prima di perdere conoscenza, si era messo a scavare a mani nude tra i calcinacci della stazione, alla ricerca della moglie Margret Rohrs, trentanove anni, e dei tre figli, Holger, Eckhardt e Kai, rispettivamente di sedici, quattordici e otto anni. Si erano sposati nel 1963 e quella era la loro prima vacanza. Nei quindici giorni precedenti avevano soggiornato in una pensione del Ferrarese, a Lido di Pomposa, e il 2 agosto, di prima mattina, erano ripartiti verso casa. A Bologna avrebbero dovuto trascorrere un paio d’ore in attesa della coincidenza. Margret aveva caldo e con i due figli più piccoli entrò nella sala d’aspetto. Horst la seguì con il maggiore, Holger, e poi decise di ingannare il tempo facendo quattro passi, ma fece appena in tempo a uscire dal locale affollato che la bomba esplose.
L’operaio tedesco non cadde e quando si voltò verso la sala d’aspetto per tornare sui suoi passi vide che non c’era più. Allora cercò di fare il giro e raggiunse l’ingresso opposto, in piazza delle Medaglie d’Oro, gettandosi sulle macerie. Il primo che trovò fu Holger, ancora vivo e con le ossa spezzate. Scavò ancora fino a liberare il figlio, che depose poco lontano, in attesa che lo portassero al policlinico Sant’Orsola. Poi tornò a cercare gli altri. Non ci mise molto a trovarli. Prima Kai, poi Margret e infine Eckhardt. Per i primi due non c’era più nulla da fare mentre il figlio quattordicenne era in fin di vita e sarebbe sopravvissuto pochi minuti al ricovero. Di fronte a quella visione, Horst svenne. Lo portarono all’ospedale Rizzoli, ma chiese subito di andare alla ricerca dei familiari. Aveva i vestiti a brandelli ed era senza un soldo perché aveva perso il portafogli. I sanitari, allora, fecero una colletta e raccolsero trecentomila lire affinché Horst potesse acquistare degli abiti e sostenere le spese per l’imprevista permanenza a Bologna. Nella sua ricerca per gli obitori lo accompagnò un medico italiano che parlava tedesco.
Quella alla stazione di Bologna è una strage di famiglie sulla via delle vacanze in cui morì anche Sonia Burri, sette anni, che da Bari attendeva un treno per Roma. I soccorritori impegnati a cercare vittime e sopravvissuti, prima di lei, trovarono la sua bambola rossa. Sonia si trovava a una manciata di metri dalla bomba, con diversi parenti. C’erano i suoi genitori, Angelo (sopravvissuto) e Rosalia Serravalli, e la figlia maggiore della donna, Patrizia Messineo, diciotto anni, fresca di diploma in ragioneria e in attesa del padre. L’esplosione investì anche la zia materna, Silvana, una maestra di Bari di trentaquattro anni, e le sue due bambine, Simona e Alessandra Barbera, che riportarono ustioni e fratture, ma che sopravvissero insieme ai nonni, Luigi e Grazia Serravalli. Un’altra bambina morta in quella torrida mattina è Manuela Gallon, undici anni. Attendeva con la madre, Natalia Agostini, quarant’anni, operaia alla Ducati Elettronica, e con il padre Giorgio, saldatore delle ferrovie, un treno per Dobbiaco, in provincia di Bolzano, dove avrebbe soggiornato in una colonia estiva.