Aveva ventitré anni lo spagnolo Francisco Gomez Martinez. Lavorava in un’azienda tessile di Sentmenat, vicino a Barcellona, e non aveva potuto permettersi di frequentare l’università. Ma le sue passioni erano la storia antica e l’arte classica. Così, per tutto l’anno, risparmiava e d’estate partiva per visitare i luoghi che studiava in solitudine. A Bologna, l’esplosione lo travolse mentre stava scendendo da un treno. Loredana Molina, quarantaquattro anni, viaggiava con il figlio tredicenne, Paolo Sacrati, e la suocera, Angelica Tarsi, settantadue. Erano stati accompagnati alla stazione da Dario, il padre di Paolo, che era andato a parcheggiare, e alle 10:55 sarebbero dovuti partire per Ancona. Di lì avrebbero proseguito per Ostra. Intanto si erano messi all’ombra sotto la pensilina del primo binario. Solo Paolo è sopravvissuto. Vincenzina Sala, cinquant’anni, e il marito Umberto Zanetti erano alla stazione in attesa del ritorno da Basilea della figlia Daniela, che viaggiava con il marito, Paolo Bolognesi. In Svizzera era stata sottoposta a un intervento chirurgico e sapeva che con i nonni l’aspettava anche il suo bambino, Marco, sei anni, oltre alla suocera, Bruna. Vincenzina morì all’istante e il bambino venne ferito così gravemente che il padre lo riconobbe da una voglia sull’addome.

Con Vincenzina morì anche una sua coetanea, Berta Ebner, che arrivava da San Leonardo di Passiria, in provincia di Bolzano. Era una casalinga nata l’8 febbraio 1930 e fu tra i tre altoatesini coinvolti nella strage. Rimasero infatti feriti nell’esplosione un ragazzino di quattordici anni, Giuseppe Soldano, che viveva vicino a Merano, e una bambina di undici, Sonia Zanotti, di Ortisei, che per anni dovette sottoporsi a interventi chirurgici. Il suo sogno di diventare una campionessa di sci fu così cancellato. Vincenzo Lanconelli, cinquantun anni, era invece in partenza per Verona. Arrivava da Bagnacavallo, in Romagna. Dopo una vita di lavoro trascorsa all’ispettorato del Lavoro di Ravenna, da pensionato aveva deciso di prendersi una seconda laurea in Giurisprudenza dopo quella in Economia e aprire uno studio di consulenza. Nei suoi piani, per quella serata, c’era un concerto di musica lirica all’Arena. In pensione era anche Romeo Ruozi, cinquantaquattro anni. Originario di Reggio Emilia, viveva a Bologna. Alle 11:58 sarebbe arrivata da San Donà di Piave la figlia trentenne, Valeria, che avrebbe trascorso qualche ora con i genitori e poi sarebbe ripartita con la sorella Roberta, quattordici anni, reduce da un brillante esame di terza media. Romeo era in grande anticipo e la moglie Giuseppina, che lo attendeva a casa, sperò che dopo l’esplosione le telefonasse per dirle che stava bene. Il corpo dell’uomo fu rintracciato da lei e dai figli solo in serata, tra le cinque salme portate al Maggiore e non ancora riconosciute.

Aveva cinquantaquattro anni anche Amorveno Marzagalli, di Omegna (Novara, ora Verbano Cusio Ossola). Il 1° agosto 1980 era giunto in auto con la moglie Maria e il figlio Marco, uno studente di medicina di venticinque anni, al Lido degli Estensi, nel Ferrarese. Il giorno successivo, in treno, si era rimesso in viaggio per raggiungere il fratello a Cremona e poi, a bordo di una pilotina, sarebbero ridiscesi verso l’Adriatico. Non fu possibile stabilire con esattezza dove Amorveno si trovasse al momento dello scoppio. Fu ritrovato all’obitorio. Il suo corpo era stato contrassegnato con il numero 11. A Cremona stava andando anche il reggino Francesco Antonio Lascala, cinquantasei anni, in pensione dopo una vita trascorsa come centralinista alle Ferrovie dello Stato. Stava andando a casa della figlia Vincenza, che si era trasferita nella città lombarda dopo il matrimonio, e a Bologna il suo treno era giunto con tre ore di ritardo. Così, intorno alle 9:30, aveva chiamato a casa perché riferissero a Vincenza di non preoccuparsi, se non lo avesse visto alla stazione d’arrivo all’ora stabilita.

Per Rosina Barbaro, cinquantotto anni, e per suo marito, Luigi Montani, quella era la prima vacanza senza la figlia, Annamaria, ventinove anni. Avevano scelto il treno per andare a Pesaro e camminavano sul primo binario tenendosi per mano. La bomba li sorprese mentre stavano per entrare al bar. Per Rosina non ci fu scampo e la figlia, il giorno dei funerali, rifiutò di stringere la mano al Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. «Non volevo assolutamente offendere l’uomo, non gli ho voluto stringere la mano semplicemente perché ho visto in lui il rappresentante di questo Stato». Lina Ferretti era una casalinga di cinquantatré anni che viveva a Livorno con il marito Rolando Mannocci, ferroviere, e con i figli, Maurizio e Paola. A lei fu dedicata una via perché non fosse dimenticata una «vittima della strage di Bologna», com’è stato scritto sulla targa che riporta il suo nome. Irene Breton, sessantun anni, veniva invece dalla Francia e il marito fu tra i primi a dichiarare che la sua famiglia si sarebbe costituita parte civile al processo contro chi aveva provocato quel massacro. E anche dalla Repubblica di San Marino ci fu chi si mosse in memoria del preside Pietro Galassi, sessantasei anni, che, dopo la laurea in Matematica e fisica, si era trasferito a Viareggio, dove aveva iniziato a lavorare come insegnante. Tra le vittime della strage di Bologna, oltre a turisti e viaggiatori, ci sono tanti lavoratori.

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Il 2 agosto 1980 la strage di Bologna, esseri umani non numeri. Chi erano tutte le vittime della bomba alla stazione: 85 morti e 200 feriti

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Bologna, a 40 anni dalla strage “la luce in fondo al tunnel della verità. Dopo i mandanti ed esecutori bisognerà individuare gli ispiratori politici”. L’inchiesta sui mandanti massoni della P2 apre nuovi scenari

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