Katia Bertasi, trentaquattro anni, era impiegata a poche decine di metri dal padre Fulvio, maresciallo della Polfer. Era stata assunta dalla società di ristorazione Cigar, che gestiva il bar e il ristorante della stazione, e da poco era diventata madre per la seconda volta. Quando ci fu l’esplosione, Fulvio Bertasi era in servizio e vide che a essere colpita era l’ala in cui lavorava la figlia. Quando chiamò i soccorsi, urlò che mandassero quanti più uomini e mezzi possibile. Poi si precipitò verso le macerie e iniziò a scavare. Alla Cigar era impiegata anche Mirella Fornasari, trentasei anni, che avrebbe già dovuto essere in vacanza con il marito. Ma quell’anno la partenza era stata rimandata al 12 agosto. Con Katia e Mirella, lavorava anche Euridia Bergianti, quarantanove anni, e all’elenco delle colleghe morte nella strage va aggiunta Nilla Natali, venticinque, che di lì a poco avrebbe dovuto sposarsi. La più giovane delle dipendenti della Cigar uccise dalla bomba è Franca Dall’Olio, vent’anni. Era stata assunta quattro mesi prima per occuparsi del controllo della merce in consegna. Rita Verde, infine, di anni ne aveva ventitré e anche lei era prossima alle nozze.
Era un ferroviere invece Onofrio Zappalà, ventisette anni, nato a Sant’Alessio Siculo (Messina). Dopo l’assunzione avrebbe dovuto lavorare alla stazione di Porretta Terme, sull’Appennino, e per un po’ era stato assegnato allo scalo bolognese di San Donato. Al momento dell’attentato aspettava un treno che lo portasse lì e intanto con la testa era già al giorno dopo, al 3 agosto, quando avrebbe rivisto la fidanzata danese, Ingeborg, ventidue anni, una maestra d’asilo che studiava Pedagogia a Copenaghen. Il 3 agosto 1980, ad attenderla a Bologna, c’era un agente della polizia ferroviaria che le diede la notizia. La ragazza proseguì alla volta della Sicilia, ospite della famiglia di Onofrio, e qui rimase fino ai funerali del fidanzato. Anche Gaetano Roda, nato a Mirabello, in provincia di Ferrara, trentun anni prima, era un ferroviere. Da poco era stato assunto come capostazione e stava seguendo un corso di formazione a Bologna. Quando esplose la bomba, era sulla banchina del primo binario e l’onda d’urto lo schiacciò contro il convoglio per Basilea che attendeva di partire. La violenza dell’urto fu tale da piegare in due le chiavi che Gaetano custodiva nella tasca della giacca.
Argeo Bonora, quarantadue anni, era un altro ferroviere, ma quel giorno non era alla stazione di Bologna lavoro. Stava andando dalla madre, a Saletto di Bentivoglio. La vedeva di rado e quel giorno decise di muoversi da solo, senza portare con sé nessuno dei cinque figli, tre gemellini di due anni, uno più grande di sette e la primogenita di dodici. Antonino Di Paola, trentadue anni, invece da anni lavorava per la Stracuzzi, società specializzata in apparecchiature elettriche per la segnalazione ferroviaria. Il 2 agosto era alla stazione di Bologna con un amico, Salvatore Seminara, catanese di trentquattro anni, ed entrambi aspettavano il fratello di quest’ultimo, Giuseppe, che stava arrivando da Vercelli per godersi due giorni di licenza dal servizio militare. Il suo treno però, annunciato per le 10:15, era in ritardo e così Antonino e Salvatore si erano rassegnati ad attendere trovando posto nella sala d’aspetto di seconda classe. Morirono entrambi.
Fausto Venturi, trentotto anni, faceva invece il tassista e la mattina dell’esplosione era in servizio nel trafficato piazzale che si apre uscendo dalla stazione di Bologna. Aveva ripreso a lavorare il giorno prima, quando era rientrato da un periodo di cura a Chianciano. Donatore di sangue all’Avis, avrebbe dovuto svolgere anche una commissione: un’infermiera gli aveva affidato una busta con un’offerta per i padri salesiani di Bologna. Così Fausto contava di finire il turno, iniziato alle 8:00, e poi di adempiere il compito che gli era stato affidato. Ci fu un altro tassista che morì a causa dell’attentato del 2 agosto 1980. Era Francesco Betti, quarantaquattro anni, di San Lazzaro di Savena, un comune alle porte di Bologna. Nato a Marzabotto, viveva con la moglie, Guerrina Baldazzi, e con il figlio Federico, due anni. Il quale, quando vedeva il taxi del padre, esclamava sempre: «Giallo, papà», riferendosi al colore dell’auto con cui lavorava. Dopo la bomba, quando i colleghi andarono a casa sua, il bambino disse solo «giallo».