La festa della ‘Tabaski’, comunemente chiamata così nell’Africa Occidentale francese, iniziata due giorni fa terminerà lunedì. Questa importante festa del calendario musulmano ricorda, con allusioni al racconto biblico, la fede obbediente di Abramo che non aveva esitato a sacrificare il figlio (Isacco o Ismaele, secondo il racconto). Fermato in tempo prima del gesto fatale, il figlio fu sostituito da un capro e la festa in questione fa memoria di questo avvenimento, sacrificando un capro o più per famiglia.
Malgrado la crisi conseguente alla pandemia, che ha finora relativamente risparmiato il Niger, la cerimonia si è svolta come di consueto. Lungo le strade di Niamey e nei cortili, i capri uccisi sono messi ad arrostire, consumati in famiglia il giorno seguente e parti dell’animale condivise con parenti, vicini e poveri. Il sacrificio è stato preceduto dalla rituale preghiera alla ‘grande moschea’ di Niamey e nelle altre sparse nei quartieri della città. La tradizione, sempre molto sentita dalla popolazione, si è rinnovata. L’acquisto dei capri per la circostanza, ha permesso a molti allevatori dei villaggi e in città, di tornarsene a casa con il necessario per far sopravvivere la famiglia.
In effetti, nel Niger come altrove nel Sahel, a essere sacrificato non è solo il capro. Secondo i risultati della prima edizione ‘dell’inchiesta armonizzata sulle condizioni di vita delle famiglie’ nello spazio economico dell’Africa Occidentale, il Niger è il Paese che conta il più grande numero di poveri. Tre abitanti su quattro, secondo questo rapporto, vivono sotto la soglia di povertà. L’inchiesta si basa sulla soglia internazionale di povertà monetaria moderata, per la quale si considera povera la persona che spende meno di 3,2 dollari al giorno. Da ciò risulta che il 75,5 % della popolazione del Paese si trova in questa particolare categoria di persone. Nello stesso rapporto si evidenzia che la Costa d’Avorio e il Senegal sono i Paesi dell’Unione Monetaria con la più debole concentrazione di poveri mentre, a parte il Mali e il Benin, la maggior parte degli altri Paesi si trova sotto la soglia di povertà.
Questi sono tra i ‘sacrificati’ del sistema che, almeno fino all’imprevista visita del Coronavirus, si vantava di cifre record nella macroeconomia, in barba alle crisi di crescita registrate altrove. Sacrificati invisibili ma reali che appaiono nelle statistiche per poi scomparire. Naturalmente non sono gli unici a perpetuale il sacrificio rituale. Dovremmo parlare di alcuni attivisti sui diritti umani e un giornalista del Paese che hanno passato e reso attuale la festa del sacrificio in carcere. Anche altrove che cose non vanno meglio. Ricordava un rapporto di Global Witness di appena qualche giorno fa, che oltre 200 militanti per l’ambiente e i diritti umani, sono stati sacrificati, la maggior parte di loro in Asia. Dovremmo sommare le centinaia di migliaia di sfollati nel vicino Burkina Faso, Mali e lo stesso Niger. Rifugiati provocati dal banditismo armato verniciato di djiadismo, tutti quanti poveri contadini e già ‘invisibili‘ prima ancora di essere stati strappati dalle loro case e terre. Le migliaia di bambini che non avranno mai l’opportunità di mangiare e bere quanto basta per garantire una sana e decente crescita umana.
Lo ricordava recentemente un articolo pubblicato sul ‘Le Monde’ che il ‘virus della fame’ minaccia, nel già fragilizzato Sahel, milioni di persone. ‘Tutte le conseguenze delle misure anti-Covid-19, messe in atto dagli Stati saheliani, sono state sottostimate’, afferma Alexandra Lamarche dell’Ong Refugees International, ‘il Programma Alimentare Mondiale stimava che 3,9 milioni di persone nel Sahel centrale avrebbero sofferto di insicurezza alimentare in questa stagione. Oggi siamo a 5 milioni‘. La chiusura di mercati e frontiere, i coprifuoco, il divieto dell’uso delle moto e altre restrizioni negli spostamenti, hanno avuto come conseguenza quella di complicare la vita dei contadini e più in generale sul sistema agro-pastorale che dà lavoro a circa 25 milioni di saheliani.
Dalla memoria del sacrificio di Abramo, della sua obbediente sottomissione all’appello di Dio fino ai numerosi ‘sacrificati’ di oggi esiste una tragica continuità. Saperli riconoscere e assumerne la ferita è solo il primo passo. In questo ambito la ‘sottomissione obbediente’ di Abramo si chiamerebbe ‘complicità’.