Lo scorso 3 luglio, in pieno giorno, Ali Al Haq ha deciso di uscire di casa per andare ad Hamra street, nel cuore commerciale di Beirut ovest. Arrivato vicino a un vaso, si è fermato e ha appoggiato un documento sul terriccio al suo interno. Poi ha tirato fuori una una pistola e si è sparato un colpo in testa.
Il documento era la prova della sua fedina penale pulita, appena rilasciata dalle autorità, alla quale Al Haq, in calce, aveva aggiunto con un pennarello rosso: “Non sono un eretico”. Un’autocertificazione, quasi una giustificazione: per un musulmano come Ali il suicidio è peccato, in qualunque circostanza. Ma “non sono un eretico” – in arabo ana mish kafir – è anche il verso di una famosa canzone del cantante libanese Ziad Rahbani, che poi prosegue con “…è la fame ad essere un’eresia”. Ali Al Haq è morto per disperazione e per fame, la sua e quella di una famiglia che non riusciva più a mantenere.
Secondo un recente report di Save the Children, solo nell’area della Greater Beirut – 2,2 milioni di abitanti – le persone che non hanno cibo a sufficienza sono circa 910mila, la metà dei quali bambini, che rischiano di morire di inedia nel corso dell’anno. La scorsa settimana a Tripoli, Walid al Manna, un bimbo di 2 anni, è spirato a causa di una polmonite, dopo che tutti gli ospedali della città hanno dovuto declinare – per mancanza di posti letto e risorse – la richiesta di ricovero da parte dei suoi genitori, che lo vedevano cianotico da giorni.
Il Libano è in coma profondo, forse irreversibile, dopo esser precipitato in una crisi economica senza precedenti. La classe media libanese, fino a pochi anni fa rinomata per standard di vita equiparabili a quelli dei loro omologhi europei, è praticamente scomparsa, polverizzatasi insieme ai propri risparmi bancari denominati in lira libanese (spesso i mutui da pagare sono in dollari), che negli ultimi 8 mesi ha perso l’80% del suo valore. Dallo scorso ottobre si è passati da un tasso di cambio di 1500 per un dollaro – mantenuto artificialmente dalla Banca centrale – a 8000 sul mercato nero. La polizia locale ha riferito Der Spiegel della diffusione di un nuovo tipo di rapine: quelle in farmacia, perché anche i pannolini e il latte in polvere hanno raggiunto cifre esorbitanti. I dati della polizia parlano anche di un aumento del 50% dei furti d’auto nei primi mesi del 2020 rispetto all’anno precedente, e del 20% per quel che riguarda le rapine.
Maher, che ha un forno nel quartiere di Dawra, si è quasi rassegnato all’idea di chiudere: “come faccio? Due mesi fa un chilo di pollo mi costava 12mila lire, oggi costa 58mila. Non possiamo più andare avanti”. Non è forse un caso che le autorità lo scorso 20 luglio abbiano sequestrato nella regione del Metn un totale di 40 tonnellate di pollo scaduto tra il 2016 e il 2017. La carne rossa è diventata a tutti gli effetti un bene di lusso, addirittura eliminata dal rancio delle Forze armate. Sui siti internet di commercio solidale i libanesi scambiano gioielli e vestiti con passeggini, biberon, culle per bambini.
Il Libano ha un’economia dollarizzata ma i libanesi non hanno più accesso ai dollari da ormai duecento giorni, da quando cioè sono stati dapprima disposti limiti al loro prelievo e poi vietati del tutto, sullo sfondo di un default tecnico dichiarato dal governo ad inizio marzo, per via del mancato pagamento di un Eurobond da 1,2 miliardi di euro. Lo stesso esecutivo guidato dal premier Hassan Diab ha stimato le perdite in circa 70 miliardi di dollari, in un paese che ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo. In valuta “forte” il Libano importa quasi tutto, ed il prezzo dei beni alimentari è cresciuto di oltre due terzi. Decine di attività hanno dovuto chiudere, contribuendo a portare il tasso di disoccupazione al 33%, quello giovanile al 45%.
L’ultima, inquietante novità è il buio sulle strade: metà dei semafori di Beirut hanno smesso di funzionare, e lo stesso vale per gran parte dei lampioni, a causa di una faida (su chi debba essere destinatario degli introiti derivanti dai parchimetri) tra la municipalità della capitale e l’Autorità per la regolamentazione del traffico, che ha portato lo scorso maggio a non poter più rinnovare il contratto con l’azienda libanese-americana Duncan-Nead, che se ne occupava. A giugno sono stati 33 i morti in incidenti stradali, oltre il 120% in più rispetto ad aprile.
Dalla fine della guerra civile (1975-1990) il Libano ha fatto i conti con l’occupazione da parte di eserciti stranieri; con una ricostruzione post bellica schizofrenica e profondamente diseguale, se è vero che secondo le Nazioni Unite l’1% della popolazione detiene il 25% della ricchezza, e il 20% dei depositi bancari complessivi, nel 2017, era concentrato in circa 1600 conti correnti (circa lo 0,1% del totale dei conti), molti dei quali posseduti dai politici locali. Ha vissuto due guerre con Israele, gli anni degli attentati ed infine gli spillover della guerra in Siria (e la guerra tra i quartieri tripolini di Bab al tabbeneh e Jabal mohsen, un conflitto siriano in scala ridotta), con il conseguente afflusso di un numero incredibile di profughi siriani – 1,5 milioni, che si aggiungevano ai 500mila palestinesi, in un paese che ha 5 milioni di abitanti ed è esteso esattamente come l’Abruzzo -, la mancanza di una rete elettrica efficiente, con blackout programmati di circa 12 ore al giorno nel migliore dei casi, ed una rete internet che proprio ieri si è bloccata in tutto il centro di Beirut per il sovraccarico dei generatori privati alimentati a benzina.
Mai, però, si è arrivati a questo punto, per giunta con una pandemia in forte peggioramento – sono quasi 5000 i casi, che crescono a ritmo di 200 al giorno, con un nuovo lockdown parziale appena annunciato – ed un popolo che non ha nemmeno più la forza di scendere in piazza a protestare, come faceva qualche mese fa. Anche manifestare costa. E fa venire ancora più fame.