di Jakub Stanislaw Golebiewski*
Siamo in piena crisi economica aggravata da una pandemia che, secondo le recenti notizie sull’aumento dei contagi, non è stata ancora debellata. Le misure per prevenire il contagio hanno inciso profondamente sulla riorganizzazione del lavoro e mi riferisco allo smart working o meglio home working, che ha riguardato migliaia di padri e madri nel nostro Paese.
Uno studio condotto da Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio parla di oltre 8 milioni di lavoratori e lavoratrici contro i 500mila che lavoravano da remoto prima del Coronavirus. E’ indubbio che in un Paese dove una donna su tre lavora al nord e una su quattro al sud, sono state sempre più le madri ad occuparsi dei figli; ma è anche vero che molti uomini si sono trovati a lavorare da casa a maggiore contatto con i figli che non andavano a scuola o all’asilo o che, per diverse settimane, non potevano andare a giocare, dovendo necessariamente conciliare lavoro e cura dei propri figli.
Se questo cambiamento purtroppo forzato nella riorganizzazione del lavoro perdurerà anche una volta che avremo sconfitto il virus, inciderà sulla riorganizzazione familiare e su una maggiore suddivisione del lavoro di cura tra padri e madri?
L’Italia è un Paese fortemente tradizionalista che fatica a cambiare. Un’indagine svolta dall’Istat nel 2016 ha rilevato che le donne si occupano delle faccende domestiche quasi il doppio rispetto agli uomini, mentre il rapporto è inverso per quanto riguarda il tempo dedicato al lavoro retribuito, nettamente maggioritario fra i maschi.
La rinegoziazione familiare avvenuta nei decenni passati aveva avuto come risultato finale una ridefinizione della figura materna, una vera “acrobata” capace di conciliare il lavoro di cura con l’impegno lavorativo; che però da allora ha scontato anche un carico di lavoro maggiore rispetto a quello dei padri, che hanno subito passivamente una rivoluzione che ha portato alla crisi del loro ruolo.
Negli anni Sessanta e Settanta, con la diffusione del lavoro femminile, la donna avvia un processo di emancipazione e di ricostruzione identitaria che mette al bando il padre autoritario degli anni precedenti, un padre padrone della famiglia e detentore di una cultura arcaica e di valori tradizionali ormai obsoleti e getta le basi per una crisi della famiglia e dell’autorità genitoriale. Negli anni Ottanta e Novanta in poi la riflessione mira ad una ridefinizione dei rapporti tra marito e moglie e a un necessario rimodellamento dei rispettivi ruoli genitoriali non più legati alla differenza tra uomo e donna.
Si cerca infatti di passare dalla famiglia asimmetrica fondata sul principio di autorità paterna verso l’idea di una famiglia fondata sullo spirito di reciprocità, dove i coniugi avvalorano le proprie identità attraverso una condivisione genitoriale ininterrotta e fondata sul principio della generosità. E’ una necessaria evoluzione delle relazioni, ma nello stesso tempo è molto difficile da realizzare. Si tratta ancora di una conquista da compiere ed è il frutto di una preparazione umana, culturale e spirituale che pone in primo piano la scoperta di una nuova paternità che prende vita dalle macerie dell’immagine del padre autoritario consegnataci dal passato.
Qualcuno afferma che il padre è tramontato e scomparso, altri lo considerano eclissato e sradicato dalla sua storia; da una parte si percepisce un’assenza inaccettabile della figura paterna definendo la nostra una società senza padri, dall’altra si auspica e si desidera il ritorno di un padre da un volto nuovo che appaia in tutta la sua nudità e fragilità, ma che sia più reale e responsabile. Su un fatto siamo tutti d’accordo: nonostante la storia abbia conosciuto numerosi passaggi – evoluzioni-involuzioni, slanci in avanti e arretramenti – nulla potrà più portare indietro le lancette della storia.
I giovani padri di oggi sono consapevoli dei cambiamenti: forse la pandemia si è imposta nel modus operandi all’interno della famiglia e sta malgrado tutto agevolando la rivoluzione paterna? I padri di oggi hanno scoperto l’enorme ricchezza di un rapporto prima inimmaginato, hanno liberato emozioni e sentimenti per secoli rimasti costretti in stereotipi frustranti, non è pensabile che accettino di tornare sui propri passi e perdere quanto hanno acquistato. Sono certo che i nuovi padri riusciranno a coniugare tenerezza e affettività con la necessaria autorevolezza che permetterà loro di stabilire regole e confini nei confronti dei figli.
Per arrivare a ciò innanzitutto è necessario porre fine a letture contraddittorie e negative della realtà, per le quali da un lato viene rilevata l’evanescenza della figura paterna rimpiangendone l’autorità di un tempo e dall’altro si tende a svilire, delegittimare, svuotare di significato il valore paterno e i suoi connotati. E’ fondamentale partire con l’insegnamento di una cultura del rispetto che abbia già inizio sui banchi della scuola primaria (rispetto dell’altro in tutte le sue declinazioni di genere, religione, etnia, ideologia, etc.) e che porterebbe anche a una nuova cultura della separazione, finalizzata al rispetto e ad una maggiore condivisione del lavoro di cura dei figli e di quello domestico. Si tratta semplicemente di creare una sana bigenitorialità quando la coppia genitoriale è ancora unita.
Questa rivoluzione potrebbe fallire se fra padri e madri, uomini e donne, continueranno ad esserci squilibri a danno degli uni e delle altre attraverso incompatibilità, conflitto, competizione o violenza. Forse è questo il vero prerequisito per una nuova, serena paternità: che uomini e donne della politica si siedano attorno a un ideale tavolo e insieme lavorino per abbattere stereotipi, pregiudizi, ingiustizie e disparità che con il tempo penalizzano entrambi ma soprattutto le figlie e i figli.
*presidente dell’associazione “Padri in Movimento”