di Donatello D’Andrea
Nel corso degli ultimi anni, con l’avvento di quella che potrebbe definirsi la politica “per il popolo” e con il rafforzamento della costante mediatica e televisiva della stessa, c’è stato un progressivo imbarbarimento del linguaggio politico e del conseguente dibattito attorno alla cosa pubblica.
Sono molti i termini di uso quotidiano, o comunque non propriamente politico, entrati nell’immaginario comune e adoperati per descrivere una situazione di fattispecie politica. Dal comunissimo “rosicare”, termine di derivazione calcistica, all’abusatissimo “asfaltare”, in occasione di elezioni e simili. L’uso e l’abuso di questa terminologia non ricercata, né tantomeno consona ad un dibattito sulla cosa pubblica, sottolinea il lento e irreversibile imbarbarimento dell’attività politica.
Un processo inesorabile e che interessa un po’ tutte le nazioni del mondo civilizzato, le quali hanno ripudiato il saper fare politica in nome di una sintesi semplificata di concetti complessi. Una falsa necessità, dato che una delle conseguenze della semplificazione di qualcosa di complesso è, in modo inevitabile, la superficialità.
Infatti sono troppi i temi attorno cui si concentra tutta la superficialità di una classe dirigente cresciuta dentro un panorama politico dove l’importante non era portare a casa un risultato concreto, anche a costo di renderlo inspiegabile al grande pubblico, ma dare l’impressione di aver fatto qualcosa.
Ad esempio l’area tematica su cui si concentrano tutti gli sforzi della “semplificazione” è la crisi migratoria. Dal “tornino a casa loro” al “prenditeli tu”, gli slogan elaborati da talune parti politiche hanno inquinato un dibattito complesso che richiederebbe, invece, un’attenzione diversa.
Il più delle volte l’adozione di uno slogan deriva dallo scarso approfondimento di quell’area tematica, ma può altresì sottolineare la volontà del politicante di turno di far passare un messaggio facilmente interpretabile.
Gli slogan sono, forse, l’esempio più evidente della politica dello striscione che ha trasformato il dibattito pubblico in una questione di tifo. Lo squallido utilizzo della terminologia calcistica sottolinea la tendenza degli italiani a ridurre tutto ad un match dove in palio non c’è il destino dell’Italia, bensì una coppa.
Peccato che queste tendenze portino non soltanto ad un generale imbarbarimento di un dibattito che non si concentra più sul punto focale di una determinata questione ma su stralci di poco conto e, al contempo, generano nel corso del tempo una classe dirigente impreparata e avvezza alla gestione della cosa pubblica, con evidenti ricadute sulla situazione generale e sul ruolo del politico, una volta spettante al migliore della società.