La rivolta delle persone migranti nella ex caserma Cavarzerani di Udine ha riacceso i riflettori sulla rotta balcanica, quella attraverso la quale i profughi afghani e pakistani cercano di arrivare nell’Unione europea. Con la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che annuncia un “imminente rafforzamento” del contingente di militari già destinato alla vigilanza della frontiera. Da circa un mese gli arrivi sul territorio friulano sono continui. Così come quelle che il Viminale definisce “riammissioni” in Slovenia: vale a dire che i migranti identificati vicino al confine vengono riportati dall’altra parte. Anche se vogliono chiedere protezione internazionale. E anche se il viaggio a ritroso non è affatto sicuro, come raccontano le numerose testimonianze di maltrattamenti e torture soprattutto da parte della polizia croata.
Non è un caso se, in questo periodo di continui arrivi, i ritrovamenti di migranti di cui si ha notizia ufficiale sono tutti concentrati nel comuni limitrofi a Udine. E vanno ad ingrossare il numero di quanti vengono trasferiti nel centro di accoglienza alle porte della città. Si tratta di coloro che pagano di più i passeur per essere portati il più lontano possibile dal confine e non rischiare, appunto, la “riammissione” in Slovenia, che può scattare entro le 24 ore successive al rintraccio.
La questione che ci si pone ora, però, è se le riammissioni siano legittime. A sollevare il problema è stato il deputato del Gruppo Misto Riccardo Magi che il 24 luglio ha presentato un’interpellanza su queste procedure. “A metà di maggio 2020 il Ministero dell’Interno ha annunciato la volontà di incrementare le riammissioni di migranti in Slovenia”, ha ricordato. “Nei giorni successivi, le riammissioni si sono effettivamente intensificate ed hanno riguardato molti cittadini afgani e pakistani”. Questo “non in ragione del ripristino dei controlli alle frontiere interne, mai formalmente avvenuto, ma in applicazione dell’Accordo bilaterale fra Governo della Repubblica italiana e Governo della Repubblica di Slovenia” datato 1996.
La risposta del Viminale è arrivata dal Sottosegretario di Stato per l’interno, Achille Variati, che ha ammesso come “tali procedure non sono applicabili ai cittadini stranieri cui lo status di rifugiato sia già stato riconosciuto” ma ha anche ricordato che “l’esecuzione di tale tipologia di riammissione non comporta la redazione di un provvedimento formale”. Una volta rintracciate le persone migranti, “si provvede alla registrazione delle istanze nei casi in cui sia manifestata la volontà di richiedere asilo” e “qualora ricorrano i presupposti per la richiesta di riammissione e la stessa venga accolta dalle autorità slovene, non si provvede all’invito in questura per la formalizzazione dell’istanza di protezione”. Vale a dire che si procede alla “riammissione” anche quando il migrante abbia detto che vuol chiedere protezione internazionale. Perché in teoria la potrà chiedere in Slovenia.
L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) ritiene che le riammissioni siano illegali e già mesi fa ha chiesto, in una lettera al Ministero dell’Interno, di “non eseguire le riammissioni senza un previo esame delle situazioni individuali ed un effettivo coinvolgimento delle persone interessate, tenuto conto, comunque, dei trattamenti inumani e degradanti ai quali, in violazione del divieto inderogabile previsto dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le persone respinte vanno incontro lunga la rotta balcanica”. Sotto l’occhio dell’Asgi soprattutto la catena di riammissioni da paese a paese: l’Italia li carica al confine e li porta in Slovenia, la Slovenia li porta in Croazia e la Croazia li scarica in Bosnia. Senza che rimanga traccia di queste persone, né che si sappiano i trattamenti subiti se non grazie a sporadiche testimonianze raccolte dalle associazioni umanitarie, tra cui Amnesty International.
Proprio le diverse testimonianze ricostruite nel corso degli anni sul reale rischio di tortura a cui possono essere sottoposte le persone migranti ha indotto la Corte amministrativa slovena a condannare Lubiana dopo il respingimento di un richiedente asilo in Croazia. La Slovenia, però, sta usando lo stesso principio fondato su un accordo bilaterale firmato con la Croazia: un domino pericolosissimo che prende le sembianze del gioco dei tre bicchieri, con la monetina, ovvero la persona migrante, che finisce per sparire agli occhi del diritto internazionale.
Sul tema prevalgono però gli interessi dei singoli stati e dunque la confusione è molta: la stessa Commissione Europea prima ha sottolineato con una direttiva sui rimpatri del 2008 ”la necessità di accordi comunitari e bilaterali di riammissione con i paesi terzi” per agevolare le riammissioni, salvo poi ammettere che “il regolamento europeo sul diritto d’asilo non consente il trasferimento di richiedenti asilo nello Stato membro confinante”. Una confusione che persiste da anni e che ha come diretta conseguenza – e il caso di Udine ne è l’esempio – l’impossibilità di costruire un sistema di accoglienza efficace, esacerbando gli animi di tutti, in tutti i paesi, da un lato all’altro delle rotte e dei centri di accoglienza.