Prima un dpcm dell'8 marzo che seguiva alla lettera le raccomandazioni degli esperti, poi uno nuovo, il 10 che invece chiudeva tutta la Nazione. In mezzo l'aumento dei contagi, le "fughe" in treno verso sud, e, si ipotizza, ulteriori riunioni del comitato tecnico scientifico
Erano i giorni in cui la movida a Milano non si fermava e i centri commerciali erano ancora pieni. Erano i giorni in cui il presidente del Lazio e segretario del Pd, Nicola Zingaretti, dopo un ormai famoso aperitivo nel capoluogo lombardo, era risultato positivo. Erano i giorni in cui il virus non aveva ancora colpito ferocemente l’Italia, come avrebbe cominciato a fare solo dieci giorni dopo, ma già era presente in Lombardia e in molte aree. È una contestualizzazione necessaria questa perché dalla desecretazione dei verbali del comitato tecnico scientifico – resi pubblici sul sito della Fondazione Einaudi dopo una battaglia legale – emerge come al 7 marzo gli scienziati avessero raccomandato “misure rigorose” solo per una intera Regione, la Lombardia, e 11 province: Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova e Treviso, Alessandria e Asti. Definendo misure meno stringenti per il resto d’Italia. Raccomandazioni in effetti seguite dall’esecutivo che, dopo la riunione, l’8 marzo, emana un primo dpcm nel quale chiude la regione di Fontana e 14 province, alle 11 del comitato si aggiungono Novara, Verbano Cusio Ossola e Vercelli.
Dopo due giorni, con la “fuga” in treno verso sud, l’aumento dei contagi, e, con ogni probabilità, ulteriori riunioni del comitato tecnico scientifico, il governo decide che quelle misure devono essere applicate in tutta Italia: ed è il lockdown. Nella conferenza stampa di presentazione del nuovo dpcm del 9 marzo, esecutivo dal 10, il premier ricorda che “l’avanzata del virus va contenuta” e che “i numeri ci dicono che stiamo avendo una crescita dei contagi” per questo “non possiamo permetterci di abbassare la guardia”. Il bene da tutelare, ricorda Conte nel discorso di 6 minuti, è la salute e i sacrifici sono necessari. In effetti in 24 ore, cioè tra l’8 e il 9 marzo, si erano registrati quasi 1800 nuovi casi, rispetto ai 1300 del giorno precedente. Una progressione che può aver inciso sulla decisione che oggi sembra essere stata di un livello di precauzione più alto di quello richiesto dagli scienziati chiamati ad aiutare nelle valutazioni.
Nel verbale del Cts – unico dei cinque resi pubblici ad aver la dicitura riservato – compaiono tutti i provvedimenti necessari per il Cts poi ripresi dal decreto. Dalla sospensione degli eventi sportivi, alla chiusura delle palestre, fino allo stop dell’attività scolastica. Sono ore concitate, di riunioni e tavoli di confronto. Il numero dei contagiati e dei morti continua a salire di ora in ora. La bozza del decreto viene prima divulgata, poi il governo Conte fa una conferenza stampa notturna per annunciare il dpcm dell’8 marzo. 24 ore dopo, invece, arriva la chiusura totale di tutta Italia con il decreto #iorestoacasa, che prevede anche lo stop agli spostamenti, la chiusura delle scuole fino al 3 aprile e il blocco di ogni manifestazione sportiva, compresi i campionati di calcio. È possibile, appunto, e l’ipotesi sta prendendo piede in queste ore, che oltre alla riunione del 7 marzo, che ha portato al decreto dell’8, ce ne siano state altre successive, i cui verbali non sono stati resi pubblici, e che anticiperebbero invece il secondo decreto del 9 marzo, entrato in vigore il 10, cioè quello del lockdown nazionale.
Resta comunque il fatto che, secondo i verbali visionabili, gli scienziati avevano suggerito, appunto, due ‘livelli’ di contenimento e la facoltà da parte delle autorità locali di poter intervenire. “Sulla base delle informazioni in possesso del comitato tecnico scientifico e ferma restando la facoltà prevista dall’articolo 3 della legge numero 833 del 1978 di adottare ulteriori misure da parte delle autorità locali qualora le stesse siano in possesso di ulteriori e più aggiornate informazioni”, si legge nel verbale, il Cts decide di “definire due ‘livelli’ di misure di contenimento da applicarsi: l’uno, nei territori in cui si è osservata ad oggi maggiore diffusione del virus; l’altro, sull’intero territorio nazionale”. In quel verbale viene proposto “di rivedere la distinzione tra cosiddette ‘zone rosse’ (gli undici comuni della Lombardia e del Veneto già isolati dal 1 marzo, ndr) e ‘zone gialle‘” da istituire in “Emila Romagna, Lombardia e Veneto, nonché le province di Pesaro Urbino e Savona”, dove comunque già dal 1 marzo erano in vigore misure di contenimento come la sospensione degli eventi sportivi, a meno che non si svolgano “a porte chiuse”, e altre suggerite sempre dal comitato tecnico scientifico.
Quello che è avvenuto solo pochi giorni dopo è cronaca. Ospedali, lombardi e in particolare quello di Bergamo, al collasso. Reparti di terapia intensiva come fronti di guerra. Con i medici impegnati a recuperare ogni spazio possibile per aumentare il numero di posti disponibili. E nei giorni più duri, mentre le bare di decine bergamaschi venivano portate fuori Regione perché non c’era più posti nei crematori, alcuni pazienti venivano spostati in Sicilia o in Germania per essere curati. I morti in Italia a ieri erano 35.181. “Oggi l’Italia è oggettivamente messa meglio di altri Paesi. E questo ce lo riconoscono” ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, nell’informativa al Senato sul contenuto dei provvedimenti di attuazione delle misure di contenimento per evitare la diffusione di Covid 19. Rivendicando, tra gli applausi dell’Aula, che “si tratta di un risultato di tutti”, del governo, delle Regioni, dei cittadini. “La mia opinione è che siamo messi meglio” rispetto a marzo e aprile, “ma non credo che la battaglia sia vinta. Siamo fuori dalla tempesta – ha ribadito, invitando a tenere alta la guardia – ma non siamo ancora in un porto sicuro”.