Le maglie sono diventate soprattutto delle fondamentali voci di bilancio, con il risultato di aumentare le disuguaglianze fra grandi club e piccole realtà. Oggi vendere maglie, vestiti e gadget in giro per il mondo vuol dire aumentare notevolmente i ricavi derivanti dal merchandising, rafforzare la propria brand identity e conquistare nuovi tifosi: ecco perché ogni divisa è diversa e deve avere una storia da raccontare
Una partita che si gioca non sui fili d’erba verde, ma fra quelli colorati di poliestere. Perché il futuro di molti club sembra essere cucito insieme a quello delle proprie magliette. Negli ultimi anni, infatti, le divise da gioco hanno subito un veloce processo di trasformazione. Non sono più soltanto il simbolo di una società, la rappresentazione intoccabile della sua storia, dei suoi colori e dei valori alla base di ciascun club. Le maglie sono diventate soprattutto delle fondamentali voci di bilancio, una fonte di entrate buona a tenere in piedi una rosa di primo livello o a garantire una campagna acquisti importante. Con il risultato, neanche troppo nascosto, di aumentare il divario fra grandi club e piccole realtà. Un messaggio che in Serie A è diventato ancora più chiaro a inizio luglio, quando la Juventus ha ufficializzato un accordo con Cygames. Il colosso dei videogiochi giapponese verserà ai bianconeri fino a dieci milioni di euro l’anno per poter stampare il suo logo sul retro delle maglie della Vecchia Signora, poco sotto il numero di gara.
Un’intesa che ha fatto diventare ancora più pesante la divisa da gioco della Juventus, che ora vale circa cento milioni di euro. A stagione. 51 vengono dallo sponsor tecnico Adidas, mentre altri 42 arrivato dal main sponsor Jeep. Tutto senza contare i corrispettivi variabili per il raggiungimento di alcuni obiettivi e le royalty sul venduto (mentre la Juventus già gestiste autonomamente il merchandising). Numeri che diventano ancora più interessanti se paragonati alle altre realtà del calcio italiano. Sì perché la maglia dell’Inter vale circa 3,5 volte meno di quella della Juventus (10 milioni dallo sponsor tecnico Nike e 19,1 dalla Pirelli, dato Calcio e Finanza), quella della Roma 5,4 volte in meno (6,1 milioni da Nike, 11 da Qatar Airways e circa 3 dal back sponsor Hyundai), mentre quella del Napoli addirittura 6,16 volte meno (8,1 milioni da Robe di Kappa, 8,7 da Kimbo, Garofalo e Lete).
Cifre destinate a crescere ulteriormente, con la conseguenza che chi si ritrova a inseguire è destinato a continuare a inseguire. Soprattutto in Europa, dove la mappa delle disuguaglianze diventa ancora più allarmante. Il Real Madrid, ad esempio, incassa 190 milioni di euro l’anno (120 dallo sponsor tecnico Adidas e 70 dal main sponsor Fly Emirates), il Manchester United 161 (86,9 da Adidas e 74,1 da Chevrolet), giusto un milione più del Barcellona (105 dalla Nike e 55 da Rakuten). Per questo legarsi a un determinato sponsor tecnico può fare la differenza. Ne sa qualcosa il Manchester City, che ha allacciato una collaborazione con Puma dal 2020/2121, ottenendo un corrispettivo annuo di circa 75 milioni di euro (al resto ci pensa Etihad, con un assegno poco superiore ai 51 milioni annui).
Le maglie da calcio, dunque, si sono trasformate in veri e propri strumenti acchiappasoldi. E la possibilità di stipulare un accordo vantaggioso con uno dei colossi internazionali può cambiare le prospettive in chiave futura. Illuminante è il caso del Liverpool. I Reds avevano un contratto da 40 milioni di sterline all’anno con New Balance, ma hanno deciso di accettare un’offerta di dieci milioni più bassa proveniente dalla Nike. Il motivo? L’accordo porterà al club diversi bonus: il 20% del ricavato dalla vendita di tutti i prodotti con licenza, 4 milioni per la Champions League, 2 per il raggiungimento della finale e altrettanti per la vittoria della Premier. Così, secondo i più ottimisti, i Reds potrebbero arrivare a guadagnare circa 70 milioni di sterline a stagione (77 milioni di euro). E pur di chiudere questo accordo il Liverpool ha affrontato una causa legale contro New Balance. Lo sponsor tecnico, infatti, aveva una clausola che gli permetteva di rinnovare il contratto con il Liverpool pareggiando l’offerta degli altri concorrenti. I Reds, però, hanno risposto che New Balance avrebbe potuto sì offrire la stessa cifra di Nike, ma non avrebbe potuto garantire la stessa forza e la stessa capillarità di distribuzione del marchio col baffo, capace di vendere i prodotti del Liverpool in oltre 6mila negozi sparsi in tutto il mondo.
Ed è questa l’altra chiave della faccenda. Vendere maglie, vestiti e gadget in giro per il mondo vuol dire aumentare notevolmente i ricavi derivanti dal merchandising, rafforzare la propria brand identity, aprirsi a mercati ricchissimi e in costante espansione. Vuol dire trasformare dei simpatizzanti sparsi in altri continenti in potenziali tifosi e, soprattutto, in clienti. La maglia diventa un’espressione diretta di una comunità e per questo ne rispecchia la cultura, la filosofia, l’urbanistica, l’architettura, le arti. Le maglie hanno smesso di essere semplici divise per diventare la prima fonte di storytelling di ogni club. Così hanno iniziato a comparire sempre più spesso motti e citazioni: “Abbiamo undici atleti e un solo cuore” (Fiorentina), “La Roma non si discute: si ama”, “Il club più antico d’Italia” (Genoa), “La maglia più bella del mondo”, (Sampdoria), “Fino alla fine” (Juventus), “Noi siamo il City”, “Ecco Parigi” (PSG), “Vero Amore” (Borussia Dortmund), solo per citarne alcune. Tutte frasi che utilizzano il plurale e che dettano frasi spot intorno alle quali raccogliersi e costruire una comunità.
I nuovi pattern delle maglie, invece, hanno il compito di portare avanti questa narrazione sotto il punto di vista visivo. La maglia away della Roma 2015/2016, ad esempio, aveva una grafica sulla parte anteriore che richiamava la mappa della capitale e delle sue bellezze architettoniche. Un’idea che è tornata d’attualità a Marsiglia, dove per la prossima stagione Puma ha realizzato un kit ispirato allo stile degli edifici disegnati da Le Corbusier in città (soprattutto la rivoluzionaria, per l’epoca, Unité d’Habitation del 1952), a Barcellona, dove la prima maglia di questa stagione non era più a strisce verticali ma a scacchiera (ispirato al distretto dell’Eixample, dagli edifici quadrati disposti i quel modo) e Manchester. Il primo kit dei citizens in collaborazione con Puma ha un motivo a mosaico stampato sulla parte anteriore. Una scelta in piena sintonia con la tradizione cittadina. “I mosaici sono stati anche una parte importante dell’orgogliosa storia del Manchester City – ha scritto il club – risalente a quasi 100 anni fa, quando il mosaico originale della città ornò per la prima volta le porte della nostra vecchia casa di Maine Road”.
E anche la nuova maglia dell’Inter, con le strisce a zig zag, è frutto di un lungo processo di reinterpretazione della tradizione di club e città. “Ci siamo ispirati a una delle principali correnti artistiche di Milano – ha affermato Scott Munson, VP di Nike Football Apparel – La grafica a zig-zag è alla base del design post-modernista ed è anche un richiamo al Biscione. Il risultato è un kit sorprendente che ben si combina con l’unicità del club”. I tempi in cui i kit erano identici per ogni squadra (emblematico era il caso della serie Total 90 della Nike) e a cambiare erano soltanto i colori sono definitivamente tramontati. Ogni maglia, ora, deve avere una storia da raccontare e chi la indossa deve entrare a farne parte. Ma soprattutto il lancio di una maglia assomiglia molto a quello di un capo di moda. Le uniformi da gara vengono disegnate da veri stilisti e strizzano l’occhio allo streetwear (non è un caso che il PSG ha giocato in Champions con una maglia griffata Air Jordan), perché ormai indossare una maglia da calcio in contesti informali non è più considerato così assurdo, anzi. Emblematico è il caso della maglia preparata dalla Nike per la Nigeria in vista dei Mondiali 2014, andata sold out in poco più di tre ore dalla messa in vendita per un incasso da oltre 255 milioni. Insomma, il vecchio adagio “tifiamo solo la maglia” forse deve essere reinterpretato.