È storicamente significativo il fatto che sia stata proprio la Ue a richiamare l’attenzione della politica nazionale sul problema della coesione. Il Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha dichiarato che “Il Sud è un problema europeo”.
I primi venti anni del secolo XXI hanno accentuato i divari, con politiche che speravano di rilanciare il Paese concentrando le risorse e gli investimenti nella sua parte più ricca. Gli esiti, già disastrosi al 2014, dimostrano che un Paese con un divario interno come l’Italia non potrà mai crescere, vanificando ogni sforzo. È significativo che debbano ricordarcelo da Bruxelles. A dire il vero, sarebbe bastato studiarsi la lezione di Pasquale Saraceno o, più di recente, di Adriano Giannola. Il divario non è inossidabile, immutabile, come dimostrarono bene i primi 15 anni della Casmez (Cassa del Mezzogiorno), nel corso dei quali si rese possibile l’unico “boom economico” della storia unitaria. L’intervento straordinario si arenò proprio nella frammentazione della spesa conseguente alla entrata in scena delle regioni a statuto ordinario, dagli anni Settanta in poi, come ben argomentato in numerosi studi.
È altrettanto significativo che, di fronte alla grande mole di risorse in arrivo dalla Ue, esponenti politici di partiti che pur dovrebbero rifarsi a una tradizione solidaristica e unitaria, indulgano in proclami come “ricominciodalNord”, “Il Nord deve ripartire subito, il Sud può aspettare” e altre dichiarazioni di simile segno, che tradiscono una visione limitata e lasciano intravedere, all’orizzonte, beghe di bassissimo profilo politico. Queste uscite attivano le conseguenti polemiche da parte di chi, al Sud, non vede di buon occhio una distrazione di fondi tanto attesi per veder finalmente ripartire gli investimenti in conto capitale, prerequisito per colmare i divari infrastrutturali e non solo.
Aperta la critica da parte del ministro Giuseppe Provenzano: “Mi chiedo quale sia il senso […] di alimentare una contrapposizione tra Nord e Sud, di rispolverare la vecchia idea della locomotiva coi vagoni al traino, quando l’impegno di molti di noi è di riaffermare l’interdipendenza tra le aree, di far ripartire tutti i motori interni perché solo così (è chiaro, ormai, dalla Banca d’Italia in giù) riparte l’Italia”. Il 5 agosto le parole del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, hanno lo stesso segno, proprio a mezzo secolo dall’esordio delle Regioni. Egli auspica, rifacendosi al dettato costituzionale, che l’autonomia si conformi ad esigenze di “solidarietà e di perequazione finanziaria tra i diversi territori, riconoscendo allo Stato il ruolo di garante dell’uniformità dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali sull’intero territorio nazionale”.
Un dibattito basato sui vecchi campanilismi, senza visione, non gioverebbe a nulla, lasciando poco sperare nella capacità di elaborare un indispensabile “Patto nuovo per l’Italia”, che consideri anche altre opzioni, oltre a quella di un misero braccio di ferro sull’accaparramento di risorse per la propria regione o la propria provincia, a danno di altre. Sarebbe ora di chiudere con la politica dei capponi di Renzo, che nell’opera manzoniana, “faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”.
Chi parla di spesa al Sud o al Nord ha evidentemente poco chiare le modalità con cui i fondi vengono erogati, mediante progetti con partenariati ampi. Imporre, banalmente, la spesa in una o più regioni, non costituisce la soluzione. Banalmente, una grande azienda può attivare una sede decentrata limitatamente al tempo del progetto; o assumere dipendenti non locali, da richiamare in sede dopo poco tempo. Bisognerebbe piuttosto guardare ai benefici di lungo termine delle progettualità: quanta occupazione stabile ci si impegna a generare? Quante attività saranno tenute a restare alla fine del progetto? Quali indici del divario saranno abbattuti e con quali modalità? Puntare alle performance, a ciò che resta sul territorio, in termini di benefici più che al mero requisito di spesa sul territorio.
In questi mesi è emerso quanto la concentrazione di insediamenti industriali sia, in alcune regioni, già oltre il parossismo. Conseguentemente, il livello di inquinamento dell’aria e del suolo è molto significativo nell’area padana (e, al Sud, in Campania) come certificato dagli studi Ispra. È il prezzo delle politiche di concentrazione degli interventi.
Il diverso livello delle dotazioni di strutture ospedaliere e dei livelli di cura emerge dal Rapporto Annuale Istat 2019, secondo cui permangono persino importanti disuguaglianze sociali nella sopravvivenza: la speranza di vita alla nascita muta per livello di istruzione e in base all’area geografica, per cui “si osserva una differenza di 6,1 anni negli uomini e 4 anni nelle donne tra chi ha un alto livello di istruzione a Bolzano (rispettivamente 83,6 e 86,9 anni per uomini e donne) e chi ha un basso livello di istruzione in Campania (77,5 e 82,9 anni). Si osserva una minore variabilità territoriale quando il livello di istruzione è più elevato (con uno scarto massimo di 2,6 anni per gli uomini e 1,8 per le donne)”. Una ragione in più per porre mano agli annosi divari.
Si rendono ormai plausibili – oltre che possibili – nuove modalità di lavoro e una più omogenea distribuzione dello sviluppo industriale. Da un lato, le tecnologie che consentono il cosiddetto “lavoro agile” potrebbero essere impiegate, ove possibile, per consentire a molti lavoratori di operare a distanza dalla sede aziendale, soprattutto in ambito privato. Questo consentirebbe ad alcuni lavoratori di operare da altre aree del Paese, per buona parte dell’anno, liberando alcune regioni da un sovraffollamento derivante da abnorme sviluppo industriale e crescita incontrollata degli ambiti urbani. Ciò attiverebbe una lenta ma utile inversione della tendenza alla concentrazione nelle grandi città, verso i paesi interni, oggi abbandonati. La decongestione conseguente potrebbe contribuire a ridurre i canoni d’affitto degli immobili, oggi esorbitanti in alcune grandi città di tutto il Paese.
Sarebbe auspicabile che le aziende fossero messe nelle condizioni vantaggiose di “delocalizzare internamente”, creando sedi decentrate al Sud, col beneficio di portar lavoro in altre Regioni, offrendo fiscalità di vantaggio e decontribuzioni. Si offrirebbe lavoro in aziende ad alta intensità tecnologica, attirando neolaureati e lavoratori specializzati, del Sud come del Nord. Potenziare la dotazione di infrastrutture nel Mezzogiorno, anche digitali, sarebbe precondizione urgente. Accelerare le interazioni tra università, enti di ricerca e aziende, con bandi di rapida esecuzione, con erogazione rapida delle risorse, sarebbe fondamentale. Oggi, tra la scrittura di un progetto e l’erogazione degli acconti trascorrono anche anni, per le persistenti difficoltà burocratiche.
Conformare le iniziative alle linee guida del cosiddetto “Green Deal”, presentate dal Ministero per il Sud, sarebbe un’ottima strategia.
La classe politica nazionale ha la grande opportunità di ricucire il Paese, mostrando agli operatori economici le grandi opportunità di progetti ambiziosi e inclusivi.
Il Paese presenta uno dei tassi più bassi di occupazione in ambito scientifico-tecnologico a livello continentale, secondo Eurostat. Il dato è peraltro molto più basso al Sud che al Nord. Quest’ultimo è già basso, rispetto alla media europea. Abbiamo una grande occasione per modernizzare il Paese e, conseguentemente, aumentare la produttività della nostra manodopera, attraverso la spinta dell’innovazione tecnologica.
Più volte, in passato, è capitato di citare Gianfranco Viesti, il quale osservava come le risorse investite al Sud fossero de plano fruite da tutto il Paese, per diverse ragioni: le aziende che si aggiudicano i lavori infrastrutturali al Sud sono quasi sempre del Centro-Nord; una maggior disponibilità di risorse al Sud comporta una maggior possibilità di acquisto di prodotti e questo rafforza il mercato interno, che vede ancora una volta le aziende centrosettentrionali prime beneficiarie. Questi e altri elementi di mutua dipendenza, tra le varie aree del Paese, sono stati efficacemente definiti, nei recenti rapporti Svimez, come “interdipendenza”.
Leggere le future iniziative nell’ottica dell’interdipendenza potrebbe contribuire a cogliere le prospettive, limitando una miope litigiosità, di cogliere le grandi opportunità di questo momento storico. Saper pensare un progetto di ampio respiro, in cui si parli di un armonioso sviluppo dell’intero Paese è la grande sfida che ci attende.