La verità (ancora) impossibile sulla morte di Simonetta Cesaroni tormenta la sua famiglia. E anche chi dal processo ne è uscito innocente e vorrebbe essere dimenticato. Un oblio che potrebbe arrivare se si desse un nome a chi per 29 volte colpì la ragazza il 7 agosto del 1990, in un appartamento di via Poma a Roma. “Resta il dolore e restano tanti dubbi: il pm dia segnali, le indagini potrebbero essere riaperte” dice Federica Mondani, avvocato di parte civile della famiglia. In quale direzione? Con quali elementi?
Il responsabile non è mai stato individuato, nonostante i ripetuti avvisi di garanzia consegnati alle persone sbagliate e un lungo processo a carico dell’ex fidanzato, Raniero Busco, prima condannato a 24 anni e poi assolto in appello e in Cassazione nel febbraio 2014. Un caso di cui per anni si è occupata la procura della Capitale, poi costretta ad alzare bandiera bianca. Ma la famiglia della giovane non si rassegna. E a trent’anni di distanza da quell’omicidio rimasto senza colpevoli chiede, tramite l’avvocato, di riaprire le indagini.
“Resta il dolore e restano tanti dubbi: il pm dia segnali“, dice il legale Federica Mondani, sollecitando i magistrati ad un “segnale che in questi ultimi anni non è mai arrivato”. L’assassinio di via Poma, aggiunge, “rappresenta una sconfitta per tutto il sistema giudiziario italiano, una sconfitta per lo Stato”. A suo parere “bastava qualche approfondimento in più ma ciò non è stato fatto”. Mondani cita alcuni misteri irrisolti legati al caso. Ad esempio il morso trovato sul corpo di Simonetta, per cui la famiglia ha sempre chiesto che si facesse una nuova perizia. Non vuole sentire parlare della vicenda, invece, l’ex fidanzato Busco. “Vuole essere dimenticato”, fa sapere il suo difensore Paolo Loria. Per lui “via Poma è lunga storia fatta di errori, omissioni, depistaggi. Oggi, a distanza di 30 anni, chi ha il coraggio di avviare nuovi accertamenti dopo ben sette fallimenti?”.
Il riferimento è al lungo elenco di errori commessi dai giudici a partire da quel 7 agosto del 1990. Il corpo di Simonetta viene ritrovato nudo nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù. Secondo la prima autopsia è morta tra le 18 e le 18,30. Pochi giorni dopo, il 10 agosto, viene fermato dalla polizia Pietrino Vanacore, uno dei portieri dello stabile. Sui suoi pantaloni vengono individuate alcune macchie di sangue, ma le analisi rivelano che non sono riconducibili alla giovane. L’uomo viene quindi scarcerato dal tribunale del Riesame il 30 agosto. Fra gli indagati finisce anche Salvatore Volponi, datore di lavoro della Cesaroni, poi archiviato dopo alcuni mesi di indagini. Archiviati anche gli atti riguardanti il portiere e altre cinque persone appartenenti alla cerchia di amicizie e contatti della giovane.
Il primo colpo di scena arriva nel 1992, quando Federico Valle (nipote dell’architetto Cesare Valle) riceve un avviso di garanzia: il ragazzo abita nel palazzo di via Poma e secondo i pm nella notte del delitto ha ospitato Vanacore. Valle viene tirato in ballo dalle dichiarazioni dell’austriaco Roland Voller, amico di sua madre, secondo cui la donna gli avrebbe confidato che il figlio, proprio il 7 agosto, tornò sporco di sangue da via Poma. Un anno dopo Valle viene prosciolto per non aver commesso il fatto e Vanacore perché il fatto non sussiste.
Da quel momento tutto tace per oltre un decennio, finché nel settembre del 2006 vengono sottoposti ad analisi i calzini, il corpetto, il reggiseno e la borsa di Simonetta. Dai risultati, rivelati a gennaio dalla trasmissione Matrix su Canale 5, emerge che sui tessuti ci sono tracce di saliva dell’ex fidanzato della 21enne, Raniero Busco. Da lì inizia la sua odissea giudiziaria, costellata pure da un giallo: il 9 marzo 2010, a pochi giorni dalla sua deposizione in aula, si toglie la vita il portiere Pietro Vanacore. Busco viene condannato a 24 anni in primo grado per omicidio, assolto in secondo grado e assolto in via definitiva dalla Cassazione. “Busco vuole dimenticare questa vicenda e vuole essere dimenticato. L’omicidio di via Poma resterà senza un colpevole a meno che qualcuno, in punto di morte, deciderà di parlare e confessare” dice l’avvocato Paolo Loria, difensore di Ranieri Busco. “Via Poma è una lunga storia fatta di errori, omissioni, depistaggi – aggiunge il penalista -. Gli inquirenti, soprattutto nella primissima fase dopo il fatto, si sono concentrati su piste che non portavano a nulla senza guardare altrove. Oggi, a distanza di 30 anni, chi ha il coraggio di avviare nuovi accertamenti dopo ben sette fallimenti? I ‘protagonisti’ di questa brutta storia sono quasi tutti morti. Credo sia impossibile arrivare ad una verità a meno che qualcuno decida di parlare, anche in punto di morte”. E per Simonetta Cesaroni non c’è ancora giustizia.