In Spagna si calcola ci siano 637 strade pubbliche dedicate al re Juan Carlos I. Il dato, reso noto in queste ore dall’Istituto nazionale di statistica, mette in evidenza la genuina riconoscenza che il popolo spagnolo ha sempre avuto, in larga maggioranza, verso il re emerito. Un’ammirazione personale più che verso l’istituzione in sé, tant’è che negli anni ’90 non era difficile sentire commenti, soprattutto tra i giovani, del tipo “non sono monarchico, sono juancarlista”.

Riconoscenza e ammirazione. Due sentimenti diversi, il primo conseguenza di indovinate scelte politiche, il secondo più legato all’interpretazione data all’alto ruolo assunto. La Spagna più aperta, vogliosa di libertà e modernità dopo 40 anni di giogo franchista, non ha mai dimenticato la coraggiosa scelta di campo fatta dall’allora quarantenne monarca la notte del 23 febbraio del 1981 quando il tentativo di golpe del tenente-colonnello Antonio Tejero, che armi in pugno occupò il Congresso di Madrid, fu stroncato dal fermo discorso alla nazione del re sulle reti della televisione di Stato.

Juan Carlos de Borbón seppe leggere il tempo, annusò nell’aria che un’epoca si era conclusa con la fine del Caudillo, morto di vecchiaia sei anni prima. Deludendo nostalgici, conservatori e ampi strati degli apparati militari, intuì che i fragili fili che tenevano su l’impianto democratico non potevano essere troncati. In quelle ore confuse fu lui, un monarca della dinastia dei Borbone, ad ergersi a paladino di una transizione che guardava alle libertà e all’Europa.

Da quella notte smise di essere “Juan Carlos el Breve”, come lo apostrofavano quegli oppositori convinti che la monarchia lasciasse la traccia di una cometa sulla scena istituzionale, per divenire il monarca di un Paese che spalancava le porte alla modernità. La gratitudine di segno politico si è intrecciata con l’apprezzamento popolare per i gesti quotidiani di una famiglia reale discreta ma accessibile, persino schietta.

Non era raro vedere il re muoversi un po’ alticcio nei locali alla moda delle Baleari, o con qualche nuova liaison extraconiugale pronta a rinnovare la sua fama di donnaiolo. Vigeva un patto non scritto tra i rotocalchi, non sollevare polveroni mediatici intorno ad un monarca amato da tutti, in fondo sapeva godere – com’è nella cultura spagnola – della vita, e gli si poteva perdonare un Cuba libre di troppo o una scappatella sentimentale.

La fuga di queste ore del Rey emérito è solo l’epilogo di rapporti incrinatisi nel tempo, e con la famiglia e con la società spagnola. Il juancarlismo è finito nella primavera del 2012 quando, nel pieno della crisi economica alimentata dalla burbuja (la bolla immobiliare), il re passava il tempo libero in Africa, in compagnia della presunta amante Corinna zu Sayn-Wittgenstein, oggi sua grande accusatrice, per un’assurda caccia all’elefante con 50 mila dollari da pagare per ogni abbattimento.

Il prestigio costruito in oltre trent’anni precipitò rovinosamente, il processo penale scaturito dal caso Nóos, una trama affaristica ordita da Iñaki Urdangarin, marito della Infanta Cristina, con malversazioni, corruzione e riciclaggio, e i dissidi col successore al trono, il figlio Felipe, hanno fatto il resto. Fino ad arrivare all’esclusione da ogni potere di rappresentanza, o all’esautoramento da presidenze onorarie di fondazioni sociali e benefiche.

Oggi il suo nome imbarazza e destabilizza, come sottolinea il foglio Le Monde in un reportage dal titolo esaustivo “Valigia di banconote in Svizzera, società opache a Panama: Juan Carlos disordine di Spagna”. Perfino i vertici dell’Università Rey Juan Carlos (Urjc) di Madrid sono dovuti intervenire per respingere, almeno per ora, la petizione degli studenti, sostenuta da 26 mila firme, diretta a cambiare il nome all’Ateneo.

La fuga all’estero non ferma le indagini degli inquirenti svizzeri e spagnoli sulla presunta tangente saudita da 80 milioni transitata su conti elvetici nell’ambito dell’appalto, a favore di un consorzio di imprese spagnole, per la costruzione del treno ad alta velocità verso La Mecca. Nei prossimi mesi capiremo se quella precipitosa partenza ha il sapore acre dell’esilio.

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