Per amare Molte aquile ho visto in volo (Baldini&Castoldi) non importa essere esperti di cloche, slats e flaps. Il memoir scritto da Filippo Nassetti sull’epica contemporanea di una manciata di piloti di linea e della loro vocazione e istinto per il volo è uno di quei libri che ti avvolge l’anima con una naturalezza letteraria che va ben oltre i tecnicismi del settore. Alberto, Marco, Pier Francesco, Antonino, Dino, Francesco sono uomini che hanno fortemente voluto vivere e lavorare lassù, tra le nuvole, pilotando aerei, “il cielo come professione”. Poi certo, come ogni racconto che riguarda l’alta quota, la sospensione e la sfida alle leggi della gravità, Molte aquile ho visto in volo è un libro sul confine tra vita e morte, sugli incroci del destino, sugli incidenti aerei.
Diviso in capitoletti titolati con date che fluttuano tra il 1981 e il 2019, il libro di Nassetti è prima di tutto un tentativo delicato e riuscito di riannodare i fili delle memoria familiare, rispetto all’impavido e determinato fratello maggiore, Alberto Nassetti, il primo pilota di linea al mondo a tornare a volare dopo essere stato operato di un tumore al cervello, e che morì da “normale” passeggero durante l’esercitazione di un Airbus a Tolosa nel 1994. In parallelo, ma a ritroso rispetto alla linea temporale dall’infanzia all’età adulta di Alberto, c’è la storia di Pier Francesco Racchetti. Oggi pilota Ryanair, il volo come tradizione di famiglia, e un appuntamento tragico con la morte per suo padre, Pier Paolo Racchetti: anch’esso pilota ma dell’Alitalia come Alberto Nassetti, e che con Nassetti perirà sempre da passeggero durante quell’esercitazione a Tolosa nel 1994.
Lo scheletro formale, l’elemento ricorrente che sostiene l’esplorazione franca e ammirata dei piloti dell’aria da parte dell’autore è questo scavo familiare, intimo e profondo, che Nassetti ricostruisce senza fretta o enfasi, attirando a sé e commuovendo il lettore. Il testo mescola ricostruzione personale e storica con le parole dei testimoni dell’epoca, nonché il riemergere di lettere, biglietti, appunti o perfino poesie di Alberto. Gli intermezzi, invece, che diventano robusti e significativi capitoli all’interno dei capitoli più ampi, sono il racconto di alcuni piloti di linea che hanno vissuto situazioni al limite un po’ come Alberto. Antonino Vivona, ad esempio, è uno dei piloti sopravvissuti al tragico crash delle Frecce Tricolori a Ramstein il 28 agosto 1988. E il superamento dello shock da parte di Vivona, quel continuare a volare fino alla prima base possibile mentre alle spalle muoiono i tre colleghi, quel “perché il mio amico sì e io no”, risuona macabro e doloroso, negli echi di uno dei più impressionanti incidenti aerei che portò alla morte di 67 civili e ad oltre 340 feriti.
Francesco Miele è invece nel 2007 un giovanissimo pilota Alitalia – oggi da quarantaquattrenne lavora con EasyJet – che si va a schiantare contro un muretto mentre percorre una strada di Roma sulla sua moto Ducati. Nell’incidente Miele perde di netto la gamba destra e a salvarlo è Maria, la passeggera di un bus che viaggiava a pochi metri dall’impatto, che osserva l’accaduto e con sangue freddo intima all’autista dell’autobus di togliersi la cintura per creare un laccio emostatico da stringere attorno al moncherino di gamba rimasto a Francesco. Che i due poi si siano conosciuti e infine sposati è un happy ending mica da nulla. Che Miele sia tornato a pilotare un Boeing è l’impossibile, unico caso al mondo, un po’ come Alberto dopo l’intervento chirurgico, che diventerà realtà. Molte aquile ho visto in volo va sì, come scrive Gabriele Romagnoli nella prefazione, a scoprire chi c’è oltre la porticina della cabina del comandante d’aereo. Ma è anche il susseguirsi dell’eccezionalità di alcune esistenze che hanno spostato l’asticciola della vita oltre i confini del possibile, lassù tra le nuvole dove si sono trasformati e si trasformano in piccoli puntini sempre più piccoli verso l’infinito.