L'Associazione italiana della sanità privata, che aderisce all'associazione degli industriali, non ha sottoscritto il rinnovo del contratto di categoria nonostante il 50% del costo sia a carico delle casse pubbliche. Federalimentare dal canto suo ritiene eccessivo un aumento aggiuntivo di 13 euro al mese dal 2023: non tiene conto degli effetti della crisi sul settore
Tutti eroi con il portafoglio degli altri. Confindustria, attraverso la sua associazione settoriale Aiop, ancora non mette la firma al rinnovo del contratto della sanità privata. Un contratto che aspetta da 14 anni un aggiornamento. E la firma della principale associazione di imprenditori ancora manca anche in calce al nuovo contratto dell’industria alimentare: secondo Federalimentare, un aumento di ulteriori 13 euro al mese a partire dal 2024 è eccessivo. Questo mentre, in Italia, l’82% dei dipendenti ha il contratto di categoria scaduto.
Il contratto della sanità privata e 100mila lavoratori in attesa – Nonostante i fiumi di denaro che entrano nelle casse delle strutture sanitarie private e nonostante l’impegno del ministero della Salute e delle Regioni a farsi carico per il 50% dell’aspetto economico del rinnovo, il via libera ancora non c’è. Dopo la pre-intesa del 10 giugno, la sottoscrizione definitiva non è arrivata. In ballo ci sono circa 300 milioni di euro. I circa 100mila dipendenti della sanità privata (esclusi medici e dirigenti) chiedono sostanzialmente di essere equiparati a quelli che operano nel pubblico. Richiesta che sembra legittima se si considera che il 94% degli 8 miliardi di euro che ogni anno incassano le strutture private derivano da prestazioni svolte per conto del Servizio sanitario nazionale. Per non parlare del fatto che anche questi lavoratori sono stati sotto pressione durante le fasi peggiori della pandemia. Qualche apertura, ma ancora niente firma, è arrivata dall’altra associazione di categoria, l’Aris a cui fanno capo le strutture legate alla chiesa.
Niente firma anche se l’aumento lo paghiamo noi – Concretamente l’integrazione della parte economica sarebbe a carico delle regioni. Alcune, tra cui la Lombardia, hanno già stanziato parte dei fondi per incrementi salariali. In sostanza il rinnovo lo paghiamo tutti noi, per una buona parte, poiché di pari passo con l’impegno pubblico dovrebbe arrivare il ritocco delle tariffe del privato e quindi dei rimborsi spettanti quando si erogano prestazioni per conto del Ssn. Ma sull’effettivo contributo di altre regioni ancora mancano garanzie che non siano solo verbali, e così le trattative sono finite in un nulla di fatto. Fumata nera che ha mandato su tutte le furie i sindacati, che parlano di “attacco ai diritti e alla dignità di lavoratrici e lavoratori” e hanno annunciato una protesta a Roma per il 24 agosto.
Industria alimentare, è vero contratto? – Dopo 9 mesi di trattative non si è riusciti a trovare una vera quadra neppure per quanto riguarda l’industria alimentare. Settore in cui sono impiegati circa 400mila addetti. A fine luglio Cgil, Cisl e Uil da un lato, Unionfood, Ancit (conservieri ittici) e Assobirra dall’altro, hanno siglato un’intesa che prevede un incremento delle buste paga a regime in media di 21 euro lordi al mese a cui si aggiungono 5 euro di welfare e 30 euro che verranno erogati a tutti i lavoratori per i quali non c’è contrattazione di secondo livello. Ma il contratto nasce monco se si considera che 11 delle 14 associazioni datoriali, tra cui i pesi massimi Federalimentare (Confindustria) e Confcommercio, non hanno sottoscritto l’intesa. In pratica si sono tenute fuori dall’accordo aziende che producono il 70% del fatturato del settore e occupano oltre 300mila dei 400mila addetti totali dell’agroalimentare.
Nonostante ciò i sindacati affermano di considerare comunque l’accordo come il nuovo Contratto collettivo nazionale del settore a tutti gli effetti. Viceversa per Federalimentare il documento non può essere riconosciuto come Ccnl e non tiene conto della crisi che ha colpito anche la filiera. Anche in questo caso la mancata firma segue una pre-intesa firmata lo scorso 13 giugno. Il punto di rottura riguarda un ulteriore incremento delle buste paga di 13 euro a partire dall’aprile 2023, quando si spera che gli effetti della crisi saranno ormai un ricordo. A regime, ossia tra 3 anni, l’aumento medio dovrebbe essere di 119 euro al mese lordi.