Senza la proroga del divieto di licenziamento e la “coperta” della cassa integrazione, fino a 900mila persone rischierebbero di perdere il posto di lavoro per la crisi causata dal Covid 19. La stima è dell’Osservatorio sul mercato del lavoro, curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali che, nel suo monitoraggio periodico dei trend occupazionali del Paese, registra, nel periodo aprile-maggio-giugno 2020, gli effetti su imprese e lavoratori italiani di Sars-CoV-2. “Se lo storico suggerisce che i licenziamenti per motivi economici potrebbero aggirarsi sui 450.000, la congiuntura lascia senza dubbio supporre che possano essere anche il doppio”, si legge. “Tanto più se si considera che su oltre 5 milioni e mezzo di cassintegrati circa 1.300.000 appartengono al comparto turismo-alberghiero-ristorazione, tra i più colpiti dalla pandemia e nel quale si concentrano anche molti dei rapporti di lavoro a rischio (part-time, a termine, stagionali, in somministrazione) di esaurirsi stante il possibile persistere della scarsità di domanda”.

“Istat segnala che il secondo trimestre 2020 si chiude con 459.000 occupati in meno rispetto al primo trimestre (-2%) e addirittura 752.000 (-3,2%) rispetto a un anno fa. Il dato più eclatante è quello relativo ai contratti a termine, che calano del 10,5% (302.000 unità) su base trimestrale, dopo essere già scesi di oltre 150.000 unità nel primo trimestre 2020 rispetto al quarto trimestre del 2019 e nonostante la possibilità di proroga introdotta dai vari Dpcm in deroga al dl Dignità. Significativi poi il calo dell’occupazione femminile, che marca soltanto un meno 0,2% rispetto al trimestre precedente ma consolida il meno 0,3% del primo trimestre rispetto alla fine del 2019, e il dato sull’occupazione per fasce di età, che vede maggiormente penalizzate le classi di età più giovani“, si legge nell’Osservatorio curato da Claudio Negro.

Altro tema da non sottovalutare è l’asincronia tra il miglioramento del quadro economico e un’eventuale ripresa di quello occupazionale. “Asincronia fisiologica (solitamente, qualunque variazione dei dati relativi a produzione, fatturato o altre dinamiche del sistema produttivo, provoca variazioni sul piano occupazionale con un ritardo di circa tre mesi), ma in questo caso peculiare ulteriormente acuito da un ricorso alla Cig mai registrato prima in Italia”, spiega lo studio.
“Basti del resto pensare che, a fronte di domande di Naspi (disoccupazione) cresciute solo del 16% rispetto al primo semestre 2019, nei primi sei mesi dell’anno le domande di Cig sono aumentate del 1455,7%“, spiega il rapporto. Nel dettaglio, nel trimestre in esame le ore di Cig (ordinaria, straordinaria, in deroga, Fondi di solidarietà) autorizzate sono state 2.160.720.000 contro le circa 70 milioni del trimestre precedente, anche se poi i beneficiari effettivi sono stati circa 5.532.000, vale a dire un numero comunque inferiore agli oltre 8 milioni per cui le ore erano state “prenotate” nel momento più alto della domanda, ad aprile.

“Va detto che già a giugno, ultimo mese del trimestre, le ore autorizzate hanno comunque registrato una diminuzione del 50%, a riprova sia di un miglioramento del quadro generale sia di un ricorso iniziale alla Cig (al netto di comportamenti truffaldini) superiore alle effettive necessità. Al tempo stesso, tuttavia, le rilevazioni riguardanti i diversi settori produttivi rimarcano ancora una volta le difficoltà cui saranno esposti alcuni settori produttivi quando non potranno più ricorrervi: nel manifatturiero la percentuale dei lavoratori in Cig ha toccato il 38%, nelle costruzioni il 58,6%, nell’alloggio-ristorazione il 56,9%, nel commercio il 29,6%”, si legge nel rapporto.

Insomma, “è presto per guardare con ottimismo al tema occupazione, che resta anzi uno dei principali nodi da sciogliere: a meno di non ricorrere sine die a misure tampone come il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione nelle sue varie forme, occorrerà presto fare i conti con il fatto che alcune imprese saranno costrette a licenziare mentre altre forse addirittura a fallire (secondo Istat, almeno un terzo quelle potenzialmente a rischio)”, si legge. “Di qui l’importanza, oltre che di una seria strategia pluriennale di investimenti volti a incentivare produttività e sviluppo del Paese, di un programma politiche attive del lavoro che prendano in carico, riqualifichi e accompagni le persone verso una nuova occupazione, con gli strumenti più adeguati come, ad esempio, un assegno di ricollocazione di nuovo vicino ai suoi scopi istitutivi e finalmente sottratto all’assistenzialismo cui lo ha condannato il reddito di cittadinanza”, conclude lo studio del Centro voluto e presieduto da Alberto Brambilla.

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