Si tratta di Carmelo Di Stefano, Roberto Campisi, Santo Tricomi, Antonino Marco Sanfilippo e Martino Carmelo Sanfilippo: tutti pregiudicati. L'agguato, secondo chi indaga, è la conseguenza di uno scontro avvenuto pochi giorni prima in un mini-market del quartiere Nesima, dove i membri di due famiglie rivali hanno dato vita a una maxi-rissa
Ci sono cinque fermi per il duplice omicidio a Catania. La procura distrettuale antimafia – a distanza di sei giorni dalla sparatoria che ha riportato la città agli anni in cui sull’asfalto rimanevano centinaia di morti ammazzati ogni anno – ha ricostruito quello che è accaduto sabato sera nel quartiere periferico di Librino. Secondo il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e il pm Alessandro Sorrentino, ad aprire il fuoco verso il gruppo di cui facevano parte Enzo Scalia e Luciano D’Alessandro sono stati almeno in cinque: Carmelo Di Stefano, Roberto Campisi, Santo Tricomi, Antonino Marco Sanfilippo e Martino Carmelo Sanfilippo.
Sono tutti pregiudicati e ritenuti legati al clan dei Cursoti Milanesi. Il primo ha una lunga carriera criminale alle spalle. Nel 2009 venne arrestato alla guida di una Bmw in provincia di Catania, dove era arrivato da Bologna in seguito alla concessione dei domiciliari per motivi di salute: stando alla cartella clinica, infatti, era affetto da una grave malattia che lo costringeva a muoversi sulla sedia a rotelle. L’uomo, inoltre, è figlio di Gaetano Di Stefano. Meglio conosciuto come Tano Sventra, è stato braccio destro dello storico boss Luigi Jimmy Miano, tra i protagonisti della scena criminale catanese degli anni Settanta a Milano, con un ruolo di primo piano nelle vicende legate all’autoparco realizzato vicino al mercato ortofrutticolo e trasformato in mega-supermercato della droga.
Stando alla ricostruzione fatta da magistrati e Carabinieri, la sparatoria sarebbe stata l’epilogo di 24 ore bollenti, in cui a più riprese gli uomini di Di Stefano, e dunque dei Cursoti, si sono scontrati con esponenti del clan Cappello. Tra i due gruppi criminali da tempo i rapporti si sono incrinati, come emerso da diverse operazioni antimafia: nel 2015, a finire arrestati furono, oltre a Di Stefano, anche Campisi e Tricomi.
Se l’agguato di viale Grimaldi fosse il cuore di una fiction, il prequel andrebbe ricercato in quello che è accaduto venerdì in un mini-market nel quartiere di Nesima, quando a varcare la soglia dell’esercizio commerciale, alla ricerca del titolare, sono stati Di Stefano e soci: in pochi minuti è successo il finimondo, con i caschi usati come armi. Ad avere la peggio in quella circostanza sono stati, oltre al titolare, Luciano D’Alessandro e una terza persona, rispettivamente una delle vittime e uno dei feriti nell’agguato di sabato sera.
L’aggressione nel mini-market ha scatenato la voglia di vendetta. Il titolare per questo avrebbe chiesto sostegno al clan Cappello. L’indomani pomeriggio, intorno alle 18, una selva di scooter ha così scorrazzato per oltre un’ora tra i quartieri popolari di Catania alla ricerca di Di Stefano. La ronda, però, non avrebbe dato i frutti sperati, mettendo anzi in allerta proprio i Cursoti che, a loro volta, hanno pianificato l’agguato.
Come in una scena da film, il gruppo di Di Stefano ha atteso che i rivali arrivassero dalle parti di Librino e, giunti all’altezza di viale Grimaldi, ha aperto il fuoco. Nello scontro a rimanere ferito alla coscia è stato anche Martino Carmelo Sanfilippo, 26enne ritenuto l’esecutore materiale del duplice omicidio di Scalia e D’Alessandro.
Quando dopo le 19.30 sono arrivati sul posto, allertati da una telefonata al 112 che segnalava gli spari, i carabinieri hanno trovato i corpi delle due vittime e quello, sanguinante, di uno dei feriti. Da subito, tuttavia, i militari hanno avuto la sensazione che a essere coinvolti potessero essere state anche altre persone. Ipotesi quasi subito confermata dalla verifica fatta dai militari negli ospedali: al pronto soccorso dell’ospedale Garibaldi Centro erano da poco arrivate, in maniera autonoma, tre persone con ferite d’arma da fuoco.
Il provvedimento di fermo nasce dal concreto pericolo di fuga degli indagati, considerata la loro appartenenza alla criminalità organizzata. Già nei giorni successivi all’agguato Di Stefano e i suoi uomini si sono resi irreperibili nella consapevolezza che il lavoro degli investigatori stava portando dritti a loro.