Ironia della sorte vuole che nel centennale della vittoria delle suffragette americane, che cade il 18 agosto di quest’anno, a portare la prima donna e la prima donna di colore alla Casa Bianca in qualità di vice-presidente potrebbe essere Joe Biden, accusato da diverse ex colleghe di averle messe a disagio durante la sua lunga carriera politica in quanto oggetti di desiderio sessuale. Biden non brilla neppure nel campo delle discriminazioni razziali, all’inizio della campagna elettorale fu la stessa Kamala Harris, adesso scelta da lui quale vice-presidente, ad attaccarlo per aver messo il freno alla politica di integrazione razziale nelle scuole quando lei era bambina.
Tutto ciò però è irrilevante. Nelle elezioni presidenziali al tempo del coronavirus dove tutto è cambiato, dai comizi di piazza fino alla convention dei partiti, diventati eventi su Zoom, e dove tutto sembra surreale, la scelta del vice-presidente democratico appare più importante di quella del candidato alla Casa Bianca. In effetti a novembre si vi voterà o Trump o la Harris, Joe Biden è solo un veicolo temporaneo per rompere gli ultimi tabù della società americana. I motivi? In primis, l’età di Joe Biden.
Arrivando al traguardo finale a 78 anni, Biden diventerebbe il presidente più vecchio della storia americana, addirittura più anziano di Ronald Reagan quando lasciò la Casa Bianca. Con segni di senilità già evidenti, non solo ad 82 anni Biden non si ricandiderà ma terrà un profilo basso durante i quattro anni di presidenza. Spetterà alla Harris modellare l’amministrazione Biden ed assicurarne la continuità.
In secondo luogo, la campagna elettorale e le elezioni si svolgono sullo sfondo delle contestazioni di piazza del movimento Black Lives Matter, il fatto che la Harris sia per metà giamaicana e per metà indiana dovrebbe creare la giusta congiunzione mediatica per far convogliare verso di lei i voti di chi ha poco simpatie per il moderato Biden, e cioè le donne, i neri e le minoranze etniche, insomma l’America degli oppressi.
In terzo luogo, e questo sarebbe il contributo più importante, Kamala Harris in qualità di donna e di colore riscatterebbe con la sua vittoria trecento anni di discriminazioni razziali e di genere, restituendo alle minoranze etniche il rispetto che è dovuto loro ma soprattutto alle donne il riconoscimento del ruolo fondamentale che queste hanno giocato durante la rivoluzione e la guerra d’indipendenza americana. E’ questa una verità che pochi conoscono e che vale la pena raccontare brevemente.
La prima rivolta delle colonie americane inizia nel 1699, quando il Parlamento britannico approva una legge che vieta ai coloni di gestire la produzione della lana costringendoli ad esportarla in Inghilterra ed a importare a loro volta i tessuti inglesi. Per tutta risposta i coloni iniziano a boicottarli. Ma come il resto dell’Impero, le colonie americane non disponevano né di manifatture né di macchinari per filare e tessere, tantomeno possedevano le infrastrutture commerciali ed il know-how necessari per gli scambi. Avevano però la lana, e di alta qualità, e quasi ogni famiglia aveva in casa un arcolaio. Tutte le donne sapevano filare, lavorare a maglia e tessere. Quando partì il boicottaggio si misero a farlo con lena, sfidando con il loro artigianato casalingo l’efficiente produzione industriale britannica: fu una lotta tra Davide e Golia.
Le donne organizzarono concorsi di filatura, lavoro a maglia e tessitura incitandosi a vicenda a produrre sempre di più; si riunivano nelle case, nei palazzi pubblici, nelle biblioteche, nelle chiese e persino nelle pubbliche piazze portandosi dietro gli strumenti della loro arte e così filavano, sferruzzavano e tessevano dall’alba al tramonto. Le chiamavano “le api che sferruzzano”. E in effetti i loro luoghi d’incontro somigliavano ad alveari ma senza un’ape regina; erano fabbriche artigianali itineranti dove eserciti femminili lavoravano alacremente come api per tenere in vita le loro famiglie e le loro comunità, e per costruire la futura nazione.
Quando l’embargo si estese al tè, allo zucchero ed ad altri prodotti alimentari le donne li sostituirono con prodotti locali e così artigianato ed economia domestica fiaccarono il potere economico che l’Impero britannico esercitava sulle colonie. Quando finalmente la guerra d’indipendenza scoppiò, le donne vestirono e nutrirono l’esercito, combattendo con armi diverse da quelle degli uomini – arcolai, ferri, telai e una grande inventiva nella scelta alternativa del menù familiare – e così facendo contribuirono al suo esito positivo.
La storia, tuttavia, ha preferito ignorare il loro apporto e, quando nacque la nuova nazione americana fondata sull’uguaglianza, le donne ne rimasero fuori, ottenendo il diritto di voto soltanto nel 1920 grazie alla battaglia condotta dalle loro pro-nipoti, le suffragette.
Ad esattamente cento anni di distanza, l’America è chiamata a votare Kamala Harris, un’altra pronipote delle api che sferruzzano, figlia anche lei di emigrati. Se la risposta sarà positiva finalmente la storica frase “all men are born equal” assumerà il giusto significato universale, non più circoscritto agli appartenenti al genere maschile.