Universalmente (mis)conosciuto per i suoi tagli su tela, banalizzato dai più nella sfera del “potevo farlo anch’io”, mercificato in stellari aste milionarie, Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Comabbio, 1968) è forse l’artista che meglio ha rappresentato il punto di non ritorno dell’arte del Novecento. Prima di pugnalarle a morte, l’artista argentino amava plasmare le sue opere a mani nude: prima dei tagli c’è stata l’argilla, prima di Fontana mito c’è stato Fontana scultore. E proprio alla produzione ceramica di Lucio Fontana è dedicata un’intera mostra allestita dal 5 settembre al 7 novembre 2020 dalla Galleria Karsten Greve di Parigi. La retrospettiva, intitolata Ceramics, indaga l’aspetto meno conosciuto della ricerca del padre dello Spazialismo, focalizzandosi sulla spontanea visionarietà degli inizi.
La produzione in mostra va dagli anni ’30 alla fine degli anni ’50, dalle prime esperienze in Argentina alla Milano futurista, per arrivare ad Albisola in Liguria, nella manifattura dell’amico Tullio Mazzotti. Abbandonata la scultura tradizionale, praticata nell’atelier del padre e sotto la guida di Adolfo Wildt all’Accademia di Brera, la borsa di studio vinta nel ’37 lo porta a dissacrare con le sue sperimentazioni il santuario europeo della ceramica, la manifattura di Sèvres. Nel Manifesto bianco del ’46 grida al mondo che l’arte non era immobile in un tabernacolo ma cambiava con i tempi, radicata nella storia e nella natura; tramite la ceramica e le sue modellazioni dimostra che i buchi non distruggono la materia ma la liberano dalla prigione della forma facendola respirare.
Le ceramiche di Fontana hanno la stessa età del mondo, materia primordiale e magmatica che si contorce, s’increspa, si distende. I colori innaturali vibrano sfiorati dalla luce, esaltati dai riflessi cangianti dello smalto che smaterializza i volumi. L’immaginario di Fontana si fissa nelle pieghe della materia, da fondale marino e foresta si trasforma in universo di pianeti sconosciuti: evolve dal figurativo all’astratto, dalla frenesia creativa degli inizi alla consapevolezza della maturità che ha ormai reso la ceramica degna di essere arte. Anche il repertorio sacro tradizionale viene contaminato dalle riflessioni sulla natura e la Crocifissione si schiude assumendo tutte le sfumature cangianti della madreperla. Alla fine degli anni ’50, lo spazio di Fontana è ormai dilatato all’infinito, in sintonia con le prime immagini lunari dell’epoca: i buchi sulle terrecotte sferiche sono costellazioni di stelle e di idee, i graffi e le incisioni anticipano i celebri Tagli su tela degli anni ’60.
Dichiarandosi scultore e non ceramista, Fontana getta la tradizione nel fuoco delle fornaci per liberare una materia antica come la terracotta da ogni compromesso di sostanza e forma. In un secolo come il nostro ‘900, in cui si credeva perduta per sempre, scommette su una bellezza nuova: la trova oltre la semplice superficie delle sue ceramiche, opere che forse non si concluderanno mai, aperte agli sguardi degli osservatori di ogni tempo.