Centocinquanta metri di larghezza, circa cinquanta di altezza, in grado di contenere fino a 120mila tonnellate di grano, orzo e mais. Sono i silos del porto di Beirut e girargli attorno alimenta il senso profondo della tragedia del 4 agosto. Gli esperti militari che hanno esaminato il sito dell’esplosione che ha inghiottito una striscia di terra lunga 150 metri, dove si trovava il capannone che conteneva il nitrato d’ammonio, sono infatti concordi: i silos hanno evitato una ulteriore ecatombe nella zona occidentale di Beirut, fungendo a tutti gli effetti da barriera tra l’esplosione (avvenuta a pochi metri) e questa parte della città.
Se un lato dei silos è completamente sventrato, l’altro è intonso, privo di graffi, come se sorridesse rassicurante alla Corniche di Beirut. I silos del porto – creazione del banchiere palestinese Yusuf Beidas, figura iconica e quasi romanzesca del Libano degli anni sessanta – verranno probabilmente abbattuti, ma nel Paese c’è chi, tra il serio e il faceto, propone di tenerli in piedi come monumento alla memoria. Una pratica tutt’altro che inedita a Beirut, puntellata da palazzi crivellati dai proiettili della guerra civile (1975-1990), alcuni dei quali – come Beit Beirut, su Damascus road, vecchia Green line – divenuti dei musei.
Mentre il numero delle vittime sale a 220, è proprio dal Museo Nazionale che arriva una buona notizia: la sua preziosa collezione archeologica non ha subito danni. Si tratta di un altro mezzo miracolo, visto che l’onda d’urto ha fatto esplodere le tubature del Museo, generando degli allagamenti. Una squadra di tecnici si trovava in zona ed è riuscita ad intervenire con tempestività, salvando i reperti. Un’ala, nei sotterranei, è stata integralmente restaurata dalla Cooperazione italiana.
Molto peggio è andata alle dimore storiche di Mar Mikhail e Gemmayze, uno dei quartieri più colpiti, a qualche centinaio di metri dal luogo dell’esplosione. Un comitato di quartiere si sta mobilitando per impedire la distruzione di molte delle case di epoca ottomana o del periodo coloniale francese danneggiate, insistendo invece sulla necessità di restaurarle. Rue Gouraud ne ha molte in condizioni disastrose ma qui, come altrove, i danni più ingenti sono invisibili dall’esterno: anche le case i cui muri sono stati risparmiati dall’esplosione, all’interno sono un cumulo di detriti. È il caso della dimora storica di Alfred Sursock, diplomatico della prima parte del ‘900, che all’esterno sembra quasi intatta ma all’interno ha subito danni considerevoli. Palazzo Sursock – nei giorni nostri un museo su più piani, con mostre temporanee ed esposizioni fisse – è stato anche il luogo di residenza di Maria Serra di Cassano, nobildonna italiana e moglie di Sursock.
Il quartiere che meglio rappresenta questo occultamento apparente dei danni è Bourj Hammoud, collegato a Mar Mikhail da Armenia street: uno dei più densamente popolosi dell’intero medioriente – 100mila abitanti in 2 chilometri quadrati scarsi – Bourj Hammoud è nato come campo profughi per la comunità armena in fuga dal genocidio ed è diventato nel tempo un quartiere multietnico, popolato sopratutto da armeni, sciiti, cristiano-maroniti, dove vivono anche molti lavoratori provenienti dal subcontinente indiano e dall’Africa, specie nella sua estremità orientale, Dawra.
Bourj Hammoud è fatto di case colorate, vecchie e consumate dal tempo e dalla mancanza di manutenzione: un po’ questo effetto mimetico, un po’ la posizione a ridosso della sacrificata Mar Mikhail, fanno sì che dall’esterno Bourj Hammoud non presenti particolari sventramenti. Diverso è il discorso per l’interno: decine di negozi hanno subito danni che rendono necessari la chiusura a tempo indeterminato, in un’area estremamente laboriosa ma già mediamente povera, che stava soffrendo la crisi in corso. Kevork ha un figlio che studia in Italia e il suo ferramenta – che però vende anche preziosi oggetti d’artigianato – è stato colpito in modo pesante. Se ne sta tutte le mattine lì, con gli operai, a rimuovere detriti, e non esclude la possibilità di tornare dopo decenni in Armenia.
A Mar Mikhail, Gemmayze e Karantina si rimuovono macerie anche dalla strada e se le autorità di soccorso libanesi e straniere hanno fatto sapere che è ormai impossibile recuperare persone ancora vive, nei giorni scorsi dai detriti sono emersi cani e gatti, per la gioia dei loro proprietari che in molti casi hanno perso ogni altra cosa: merito di Animals Lebanon, una organizzazione animalista locale, che parallelamente alle operazioni di soccorso dei feriti ha messo in moto le proprie squadre per trarre in salvo i tanti animali domestici rimasti intrappolati tra le viscere delle case dilaniate. “Siamo entrati in azioni un’ora dopo l’esplosione”, spiega Maggie Sharawi, la vicepresidente.
“Avevamo due team: il primo si è occupato degli animali feriti e l’altro delle ricerche tra le macerie. Fortunatamente nessun animale è morto e il lavoro è stato reso possibile anche dalla presenza di 240 volontari che abbiamo addestrato, equipaggiato e spedito sul campo, dividendoli in team da cinque persone ciascuno, attivi in diverse aree. Finora siamo riusciti a riunire ottantaquattro animali con i loro proprietari, più altri ventidue che ancora non sono stati ‘ricongiunti’. Chiaramente adesso è più difficile trovarne altri vivi, ma noi stiamo raddoppiando gli sforzi”, conclude Sharawi.