Molte persone malate di Covid 19 in modo lieve o asintomatico – e che in molti casi non si sono accorte di avere la malattia – hanno sviluppato l’immunità mediata da “cellule T”, questo quanto dimostrato dallo studio del Karolinska University Hospital di Stoccolma. Ma, queste stesse “cellule T” sono state trovate anche in soggetti che non sono mai venuti a contatto con Sars Cov-2. La ragione è ancora sconosciuta, si sospetta che possa essere il risultato di un’infezione passata da Coronavirus (HCoV) comuni, quelli conosciuti ad oggi, diffusi in tutto il mondo, sono quattro: Coronavirus alpha (229E e NL63), Coronavirus beta (OC43 e HKU1) identificati diversi anni fa, i primi a metà degli anni Sessanta. Poi ci sono i 3 Coronavirus del nuovo millennio: SARS 1 , MERS, SARS-CoV-2, in tutto quindi sono sette. Sulla relazione tra Cellule T e la famiglia dei Coronavirus, c’è molto da capire, uno sviluppo certamente interessante è quello legato ad possibile vaccino “il fatto che ci sia una risposta di (cross)reazione contro Sars Cov 2 suggerisce che questo è un aspetto che va attentamente studiato in un trial clinico per un vaccino. Non solo, bisogna essere certi che quando si misura una risposta efficace al vaccino essa sia superiore a quella iniziale già presente prima della vaccinazione“, a raccontarci i risultati della sua ricerca, pubblicata su Science, è Alba Grifoni, ricercatrice del Center for Infectious Disease and Vaccine Research, La Jolla Institute for Immunology.
“Nella prima ricerca, quando siamo andati a studiare campioni di sangue prelevati nel 2013-2018 (quindi molto prima che il nuovo virus Sars Cov 2 arrivasse) abbiamo notato che circa il 50% dei soggetti era in grado di riconoscere parti di Sars Cov2 senza essere mai stati esposti al virus”. Da qui si è aperto un mondo. Una delle domande cruciali è capire se si possa pensare di schermarsi da Covid 19 esponendosi ad un altro tipo di Coronavirus comune, ottenendone una sorta di immunità significativa, ma per ora “non sappiamo ancora se esponendosi ad un raffreddore ci si protegga o meno da Sars Cov 2. Ci sono ancora studi in corso”. I punti chiave che restano ancora da capire sono vari: in che misura le Cellule T, da altri coronavirus, possano influire sulla protezione da Covid 19? Questo fattore di immunizzazione può giustificare la minore contagiosità nei bambini in età scolare, perché più esposti a “raffreddori”? Tutte le risposte delle cellule T sono benefiche o alcune contribuiscono all’immunopatologia e devono essere evitate? Gli anticorpi sono transitori e la memoria delle cellule T è più duratura: ma quanto è davvero durevole?
Ad indagare su questo filone di ricerca c’è un altro team. La squadra è guidata da un ricercatore italiano, dell’Istituto Superiore di Sanità, Andrea Savarino. La ricerca è andato molto avanti, arrivando addirittura ad un brevetto “sì tratta di una collaborazione internazionale. Abbiamo inoltrato negli Usa una richiesta di brevetto, che poi sarà estendibile internazionalmente”. Il team ha intuito che “la risposta immunitaria non deve essere dispersa ma essere concentrata solo su alcune porzioni del virus. L’approccio ottimale sarebbe un’immunizzazione personalizzata verso alcune porzioni del virus fondamentali per la sua replicazione, al fine di non disperdere la risposta immunitaria. Gli altri vaccini non puntano ad un approccio così specifico, personalizzato”. È necessario capire meglio cosa significhi questo concetto di immunizzazione da vaccino “su misura”, adattato in base alle varie risposte immunitarie degli individui, “In parole semplici, ciascuno di noi ha una combinazione di varianti differenti di una proteina (HLA I). Le nostre cellule hanno un sistema di segnalazione al sistema immunitario quando vengono invase da un agente esterno come un virus. Questo sistema di segnalazione fa sì che vengano “montati” sulla suddetta proteina pezzetti di virus, la quale in questo modo attiva il sistema immunitario. I pezzetti riconosciuti non sono uguali per tutti gli individui, tuttavia, ed a ciascuno devono essere somministrati quelli giusti al fine di immunizzarlo”.
In effetti, decenni di esperienza nello studio di un altro virus (HIV) hanno permesso di stabilire con relativa certezza che non tutte le risposte CD8-mediate (linfociti killer) sono difensive nei confronti del virus. Molte possono essere addirittura controproducenti, perché indirizzano la risposta immunitaria verso porzioni del virus mutevoli, che poi sfuggono alla risposta stessa. Studi effettuati sui macachi e sugli uomini hanno dimostrato che l’immunità è efficace solo quando diretta verso alcune porzioni del virus poco mutevoli perché fondamentali per la replicazione virale. Alla domanda sulla tempistica, per arrivare ai test di sicurezza e tolleranza sull’uomo, Andrea Savarino ci dà una bussola orientativa “ora stiamo saggiando l’approccio sui topi. Nello sviluppo di un vaccino il problema non è solo la scelta della porzione di virus da utilizzare ma anche quella del cosiddetto “adiuvante”, ovvero un supporto che permette a piccoli antigeni di diventare immunogenici ovvero di evocare una risposta immunitaria. Una volta risolto questo problema con il topo, contiamo di iniziare una sperimentazione clinica sull’uomo, auspicabilmente già all’inizio dell’anno prossimo”.