Francesco Cossiga non è stato, come molti vorrebbero farci credere, una simpatica lepre marzolina, un libero pensatore, un outsider della Repubblica, un coraggioso picconatore che ha aiutato il rinnovamento del Paese. No, Cossiga ha espresso perfettamente il senso profondo della politica italiana, è l’icona della Prima Repubblica che trapassa nella seconda e la legittima.

È stato un anticipatore: dopo il rigoroso silenzio istituzionale dei primi anni al Quirinale, lo spirito del tempo si è impossessato di lui e lo ha spinto a forsennate esternazioni che hanno fornito il modello per gli attacchi a un potere dello Stato, la magistratura, che poi Silvio Berlusconi renderà metodo di governo e programma politico; e il suo linguaggio allusivo, violento e antistituzionale sarà in seguito la cifra politico-comunicativa di Umberto Bossi (e di tutti gli Sgarbi e i Salvini della variopinta scena italiana).

La Prima Repubblica, fino a Cossiga, riteneva che le cose sporche della politica italiana (rubare, avere doppie fedeltà, coprire logge segrete, impiegare l’eversione, utilizzare il terrorismo, ricorrere all’omicidio politico, fare le stragi, stringere patti con le mafie…) dovessero essere negate: si fa ma non si dice. L’ipocrisia era ancora il tributo che il vizio paga alla virtù. Dopo Cossiga, e compiutamente nella Seconda Repubblica del Grande Corruttore, le cose sporche si rivendicano, il vizio vincente diventa virtù.

Ecco perché Cossiga è il più postmoderno dei politici della Prima Repubblica, l’unico che potrà entrare nel Pantheon del nuovo regime. Giulio Andreotti ne ha fatte forse di peggio, ma si è mantenuto fedele allo stile del silenzio e del negare sempre anche l’evidenza. Ha mantenuto l’ordine dei valori, che pure ha tante volte trasgredito. Cossiga, forse aiutato anche dalle sue personalissime malinconie, quell’ordine l’ha sovvertito, rivendicando il lato oscuro della forza e diventando, al tempo stesso, il Grande Depistatore delle vicende nere che conosceva ma raccontava sempre a metà, mischiando verità e menzogna, con messaggi obliqui e avvertimenti inquietanti.

Si dice: è stato un uomo dello Stato. Ma di quale Stato? Di quello segreto e sotterraneo che utilizzava le istituzioni democratiche come un simulacro entro cui impiantare i poteri reali che dovevano comunque condurre il gioco, al di là delle apparenze. Per questo è sempre stato un fan di Servizi segreti e logge massoniche, meglio se “riservate”. Perché erano (sono?) gli strumenti con cui la democrazia diventa apparenza, le istituzioni sono ridotte a mezzi.

Una visione speculare a quella che della democrazia ha il comunismo, il Grande Nemico che Cossiga ha combattuto e che non a caso ha in più occasioni mostrato d’apprezzare. O meglio: la versione brigatista del comunismo, che Cossiga tanto apprezzava da stringere amicizie e avviare corrispondenze epistolari con i reduci della lotta armata. Ma ciò che del comunismo gli piaceva (come a Berlusconi) era quella volontà di potenza che riduce la democrazia a gioco di specchi.

Quanti segreti ha portato con sé nella tomba. Non solo sul caso Moro. Era ancora un giovane e promettente sottosegretario alla Difesa con delega ai Servizi segreti, quando – con Andreotti ministro – trasformò il dossier sul golpe Borghese da “malloppone” a “malloppino”, decidendo gli omissis da apportare al rapporto sul progettato colpo di Stato da far scattare dopo la strage di piazza Fontana. Così fu coperto il ruolo degli apparati e furono salvati alcuni personaggi (tra questi, Licio Gelli, lasciato libero di far crescere la sua P2).

Si tenne allenato sui rapporti tra eversione nera e Stato, andando poi a incontrare in Spagna, tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977 (quando era ministro dell’Interno!) il latitante Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale e coinvolto (ma poi prosciolto, per carità) in ogni indagine sulle stragi, da piazza Fontana a Bologna.

Ordino e dispongo

Da presidente della Repubblica, dopo gli anni del silenzio inaugurò la fase parossistica degli attacchi forsennati ai magistrati che osavano indagare sull’eversione e le stragi. Feroce contro Felice Casson (Gladio). Claudio Nunziata (bombe nere sui treni). Libero Mancuso (strage di Bologna). Al Csm, Cossiga si rivolgeva con la formula imperiale “Ordino e dispongo”, per chiedere provvedimenti disciplinari per le toghe colpevoli di aprire spiragli sui rapporti tra eversione e apparati di Stato.

Grande Depistatore fino all’ultimo: ancora nell’agosto 2008 intorbida le acque e resuscita per Bologna la “pista internazionale”, in una lettera come al solito piena di allusioni, raccontando di valige palestinesi esplose per sbaglio. Per Cossiga, il golpista confesso Edgardo Sogno è “un patriota”. Chi invece chiede verità e giustizia merita solo disprezzo. Il 1° dicembre 1990, nelle stesse ore in cui i familiari delle vittime delle stragi sono davanti al Parlamento a manifestare in silenzio, con i nomi dei morti scritti sui loro cartelli, Cossiga va a rendere l’estremo omaggio a un altro morto, l’ex capo del Sid Vito Miceli, protagonista di quello Stato che continua a oscurare la verità e impedire la giustizia.

L’ex presidente ha più volte proposto una strana pacificazione: il reciproco riconoscimento di brigatisti rossi e terroristi di sinistra da una parte, terroristi neri e combattenti anticomunisti dall’altra. Ma Cossiga sapeva bene che una “pacificazione” così congegnata è soltanto l’ultimo dei depistaggi.

La guerra asimmetrica

Non è stato tra loro il vero scontro in Italia: la guerra a bassa intensità è stata combattuta da gruppi armati e protetti dagli apparati dello Stato, da una parte; e dall’altra, a farne le spese, sono stati cittadini inermi e inconsapevoli che hanno avuto la sorte di trovarsi nel momento sbagliato nel salone di una banca, nello scompartimento di un treno, in una piazza, nella sala d’aspetto di una stazione; oppure sono stati servitori dello Stato, magistrati fedeli alla Costituzione, professionisti coraggiosi, eroi borghesi.

Che pacificazione è mai possibile, allora, in questa asimmetria insanabile, quale scambio di prigionieri? Solo la verità potrebbe mettere davvero fine alla guerra che, in nome di legittime e nobili bandiere (la resistenza al comunismo) ha tradito la Costituzione e inferto ferite profonde alla democrazia.

Cossiga ha scelto invece il silenzio. E attorno a lui ha vinto la rimozione e la cooptazione nel nuovo regime del personale politico protagonista di quella guerra. Così il non detto del passato, con i suoi segreti impronunciabili e i suoi ricatti, resterà a fare da trama al futuro e le vecchie ferite resteranno cicatrici nascoste, focolai di nuove infezioni.

Versione aggiornata di un articolo apparso sul Fatto Quotidiano del 19 agosto 2010

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