Dal 13 luglio 2009 al 18 agosto 2020. Dalla prima partita ufficiale, e vinta per 5-0 contro il Bannewitz in amichevole, alla semifinale di Champions League contro il Paris Saint Germain. Nessuno aveva mai scalato il calcio così rapidamente. Il Lipsia è stato capace di battere un record che resisteva dal 1957, quando la Stella Rossa di Belgrado raggiunse il penultimo atto della Coppa Campioni dodici anni dopo la sua fondazione, nel 1945. Un percorso passato attraverso cinque promozioni in sette anni, dalla Oberliga (la quinta serie tedesca) alla Bundesliga, lo spostamento alla Red Bull Arena da 44mila posti nel 2010 e precise scelte manageriali da parte di colosso Red Bull. Come quella di chiamare, nel 2012, Ralf Rangnick, l’uomo che sta alla base del successo attuale del Lipsia e che doveva diventare la figura centrale del nuovo corso del Milan immaginato da Ivan Gazidis. Un progetto naufragato dietro agli ottimi risultati ottenuti da Stefano Pioli dopo la ripresa del campionato.
Una bella storia senza molti estimatori. Il Lipsia viene spesso criticato di essere una società senza storia (lo storico club della città della Sassonia è il Lokomotive) e senza un reale radicamento sul territorio. Un “club di plastica”, come è stato definito. Critiche che non provengono soltanto dagli appassionati ma anche da alcuni organi di stampa, come il 11 Freunde. Come riporta il Daily Mail, infatti, la rivista sportiva tedesca non coprirà la semifinale di Champions League perché il successo del Lipsia è equiparabile a quello dei “bambini che imbrogliano ai videogame sul computer”.
La sfida contro il PSG mette una di fronte all’altra due società spesso criticate. I francesi basano le loro fortuna nel grande quantitativo di milioni riversati sul mercato senza però far trasparire una grande progettualità di fondo. Il Lipsia invece non è soltanto una realtà senza storia e con una grande disponibilità economica (il proprietario della Red Bull Dietrich Mateschitz è il 57° uomo più ricco al mondo, con un patrimonio di 16 miliardi di dollari secondo la rivista Forbes) ma è anche qualcosa di più. È un club che fa della programmazione e della fiducia nei giovani il proprio marchio di fabbrica. Non è un caso se l’età media si aggiri attorno ai 24 anni. Una società dove competenza, oculatezza e voglia di guardare al futuro sono uno schema consolidato.
Il cosiddetto “modello Red Bull” affonda le proprie radici nella ricerca di giocatori giovani e talentuosi e nella connettività tra i club che fanno parte dell’universo Red Bull. Il comparto calcistico della multinazionale austriaca non comprende soltanto il Lipsia ma anche i New York Red Bulls, Red Bull Brasil, Salisburgo, Red Bull Ghana e Fussballclub Liefering. Fino a un mese fa tutte queste realtà facendo riferimento a Ralf Rangnick, nella figura di Head of Sport and Development Soccer della Red Bull. Un sistema fortemente collegato, in cui le varie società vengono usate anche come trampolino di lancio. È il caso del centrocampista Naby Keita. Il Salisburgo lo acquista dai francesi dell’Istres nel 2014 per 1,5 milioni. Due stagioni dopo è al Lipsia per 30 milioni (cifra record nella storia del club), dove si mette in definitiva luce. Nel 2018 il Liverpool deve spendere circa 60 milioni per portarlo in Inghilterra.
Dayot Upamecano viene comprato dal Salisburgo all’età di 17 anni, proveniente dal Valenciennes. Ceduto al Liefering (una sorta di seconda squadra del Lipsia), torna in Austria prima di arrivare in Germania. Oggi ci vogliono almeno 50 milioni per strapparlo alla Red Bull. La stessa cifra pagata dal Chelsea per Timo Werner, acquistato dal Lipsia per soli 10 milioni nel 2016. Dal club tedesco sono passati anche Rebic e Kimmich, oggi colonne portanti di Milan e Bayern Monaco. Senza dimenticare che nell’altra grande squadra sotto il controllo della Red Bull, il Salisburgo, sono stati valorizzati giocatori oggi di caratura mondiale come Erling Haaland e Sadio Mané.
Dai giovani calciatori ai giovani allenatori. Dopo essere tornato sulla panchina del Lipsia nel 2018/19, Rangnick ha scelto infatti come suo successore Julian Nagelsmann. Ha 33 anni, è coetaneo di Messi, non ha mai giocato ad alti livelli e la sua storia è fortemente legata alla figura di Thomas Tuchel, proprio l’allenatore contro cui dovrò vedersela nella semifinale di Champions League. È il 2008. Nagelsmann ha appena 21 anni ma ha già vissuto momenti difficili. Il padre è morto suicida l’anno prima e una serie di infortuni al ginocchio lo hanno costretto al ritiro, stroncando sul nascere una promettente carriera come difensore centrale.
È proprio in questo momento che entra in scena Thomas Tuchel, all’epoca allenatore dell’Augsburg II. L’attuale tecnico del PSG gli affida il compito di osservare e studiare le squadre avversarie. È l’inizio della sua personale avventura. Si trasferisce al Monaco 1860 dove per due anni è assistente nell’Under 17. Nel 2010 arriva la chiamata dell’Hoffenheim. Ancora giovanili fino al 2013, quando il tecnico della prima squadra Frank Kramer lo vuole nel proprio staff. Passano altri tre anni e arriva la grande occasione. Il 10 febbraio 2016 l’allenatore olandese dell’Hoffenheim Huub Stevens è costretto a dimettersi per motivi di salute. La squadra è penultima in classifica e servirebbe un allenatore d’esperienza per dare una scossa. Invece il presidente Dietmar Hopp lo promuove, a soltanto 28 anni, primo allenatore. Nagelsmann riesce a salvare la squadra e nella stagione successiva centra il quarto posto e l’accesso agli spareggi di Champions League. L’anno seguente l’Hoffenheim fa ancora meglio. Terzo posto in Bundesliga e prima storica partecipazione alla Champions League.
Dopo questi risultati molti club si interessano a lui, in Germania come all’estero. Arrivano anche le lusinghe del Real Madrid ma Nagelsmann ha già deciso la sua prossima panchina. Nell’estate del 2019 Ralf Rangnick lo ha scelto per il nuovo corso del Lipsia. In una stagione stravolta dall’emergenza Covid-19 Nagelsmann arriva terzo in campionato, dietro a Bayern Monaco e Borussia Dortmund, e al penultima atto della massima competizione europea, dopo aver eliminato Simeone nei quarti e Mourinho agli ottavi di finale. Non male per chi è stato soprannominato proprio “Baby Mourinho”.
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