Il colombiano-ecuadoriano Alejandro Landes alla regia e Jasper Wolf, direttore della fotografia, hanno creato un’esperienza intensa, sensoriale e il soundtrack monumental-minimalista di Mica Levi che rende l’intera operazione anche vagamente pop
Cinematograficamente spiazzante, esteticamente affascinante, ma anche esageratamente astratto e irrisolvibilmente metaforico. Monos, nelle sale italiane dal 20 agosto 2020, è uno di quei film con cui combatti dall’inizio alla fine per aver maggiori dettagli e tracce narrative, “per capire la trama”, e che allo stesso tempo non ti concede mai un attimo per staccarti dall’ipnotica messa in scena. Il colombiano-ecuadoriano Alejandro Landes alla regia e Jasper Wolf, direttore della fotografia, hanno creato un’esperienza intensa, sensoriale, un sogno febbrile incanalato nello sguardo e addosso ai corpi spesso nudi, sporchi, guizzanti, energici, voluttuosi, di otto ragazzi soldato immersi in almeno due contesti ambientali differenti e isolati dal mondo urbano durante quello che sembra un infinito addestramento alla guerra.
In prevalenza sono ragazzi, ma ci sono anche due ragazze e una figura di mezzo – Rambo (Sofia Buenaventura) – che volutamente confonde l’orientamento sessuale del gruppo, oscillando in una peregrina fluidità di genere. Il tutto diventa così ammasso di carne, occhi, labbra, bicipiti e pettorali, polpacci. Scarponcini per stare in mezzo al fango di una montagna incantata, cupa, nebbiosa, dove a smazzare gli ordini è il Messaggero (vero ex combattente anche se alto un metro e cinquanta). Gli AK-47 in mano, una caverna da “arredare” con rami, tronchi, copertacce alla rinfusa, una prigioniera americana da custodire (la “dottoressa” che poi vuole sempre fuggire e ci prova spesso), una coppia di soldati che si vuole sposare, una mucca in dono dall’ “organizzazione” che comanda tutto, mucca che deve essere accudita ma che finisce malissimo.
Insomma, unità di gruppo e disunione, organicità e poi disorganicità in una storia volutamente sdoppiata. Tanto Monos è un film che si mostra e mostra – soprattutto nei primi 45 minuti – una dimensione estesa, imponente ed esagerata delle potenzialità del grande schermo (vederlo su un pc è un sacrificio da non provare), quanto la sua forza espressiva evapora gradualmente incontrando elementi di una lettura possibile e politica della realtà (la guerriglia colombiana, il conflitto tra ordine e disordine). Cinema d’autore che tende a non volere spiegare nulla con le parole, ma ad alludere, pennellare, orientare attraverso le immagini. Esperimento intrigante e insinuante, in molti momenti davvero coinvolgente, in altri (la sequenza dei sensori notturni dove la mettiamo?) incredibilmente e asetticamente fuori bersaglio. Ricordiamo ancora il lavoro straordinario tutto macchina a mano di Wolf tra l’idillio di terra e l’inferno verde lussureggiante; e il soundtrack monumental-minimalista di Mica Levi che rende l’intera operazione anche vagamente pop.