Il Covid-19 ha irrimediabilmente modificato le premesse che rendevano credibile l’orizzonte del 2030 per realizzare i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile che l’umanità si era posta nel 2015. In particolare, soltanto una economia globale in espansione a un tasso elevato di crescita poteva sostenere gli investimenti necessari. La svolta sciovinista della presidenza Trump e di molti altri governi aveva già stemperato i buoni propositi, pur in una congiuntura economica espansiva. L’impatto pandemia rischia di trasformare la crescita in decrescita, probabilmente infelice.
”Se la torta economica a disposizione non può lievitare, bisogna tagliarla in modo diverso”. È la conclusione di un recente articolo scientifico apparso su Nature che analizza gli scenari post-pandemia dello sviluppo sostenibile. C’è bisogno di uno sforzo comune per aggiornare gli obiettivi, forse troppo avanzati. È una questione essenziale di credibilità. Se cade il baluardo della sostenibilità, la globalizzazione puramente finanziaria, condita da una fanatica attenzione agli interessi nazionali, potrebbe condurre l’umanità verso un disastro. E lo stesso World Economic Forum auspica un “great sustainabale reset” post-pandemico.
È quindi probabile che gli obiettivi 2030 della sostenibilità verranno rivisti, poiché lo scenario post-pandemia prefigura un mondo affatto diverso da quello del 2015. Lo sviluppo sostenibile deve però mantenere la priorità sulle varie declinazioni dei concetti di ripresa, rinascita, ripartenza post Covid-19. E tracciare l’unico percorso resiliente rispetto alle catastrofi climatiche, sociali, sanitarie ed economiche. Lo sviluppo e la crescita economica sono due cose diverse e non si andrà da nessuna parte se non verranno disaccoppiate.
Quali sono i margini economici e sociali?
Per restaurare un tasso sostenuto di crescita economica, secondo gli archetipi attuali, investire nel fossile è la strada maestra, dall’asfalto all’auto. Se nel 2015, i sussidi statali all’industria dei combustibili fossili viaggiavano sui 4,7 miliardi di dollari all’anno, ora superano i 5. Una cifra doppia rispetto al Pil italiano. Un obolo che ogni anno la gente paga per sostenere la principale causa di innesco dei cambiamenti climatici e di ostacolo alla sostenibilità. Tutti soldi della collettività che sarebbe meglio spendere per raggiungere gli obiettivi della sostenibilità, non per minarli.
La rivista Fortune elenca 500 grandi compagnie che hanno registrato nel 2019 profitti per più di mille miliardi di dollari, una cifra apri a 200 volte il bilancio annuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Molte aziende dovranno affrontare pesanti perdite se non addirittura fallire, a causa della pandemia. Ma si può ancora trovare qualche spiraglio, sostenendo politiche che favoriscano modelli aziendali che propongano obiettivi espliciti a servizio del bene pubblico e della sostenibilità ambientale e sociale.
Le aziende virtuose non sono molte, ma esistono. Parecchie corporate investono già in imprese che offrono profitti sociali e ambientali: Danone North America, il marchio di lifestyle globale Patagonia e Bancolombia, la terza banca del Sud America. BlackRock, la principale società di gestione patrimoniale del mondo, ha aderito all’iniziativa d’investimenti Climate Action 100+, finalizzata a spingere i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra a intervenire per ridurre le emissioni.
Le enormi somme destinate alla difesa militare sono in netto contrasto con la cooperazione globale che impegna le nazioni verso lo sviluppo sostenibile. Nello stesso tempo, i cambiamenti climatici sono sempre più identificati in una minaccia alla sicurezza nazionale. E, sulla scia del Covid-19, così sarà per le future pandemie.
Per far fronte a queste minacce, sarebbe certamente utile dirottare una quota significativa dei fondi per gli armamenti verso iniziative di sostenibilità. Negli Stati Uniti, molti chiedono di smilitarizzare le polizie municipali a favore di iniziative sulla salute mentale e altri servizi sociali. In Italia, la notizia che il programma F-35 vada avanti comunque lascia perplessi, per l’evidente contrasto con le grida governative sui buoni propositi post Covid-19. Una inversione di tendenza a scala globale potrebbe sbloccare immense risorse.
Infine, va anche rallentata un’altra forma di crescita, quella demografica. La storia del XX secolo ha lasciato un retaggio di orrore e una eredità di controversie ideologiche in merito a questo problema. Se, come previsto, la popolazione mondiale salirà a 9,7 miliardi entro il 2050, qualunque progresso verso lo sviluppo sostenibile sarà vano.
La responsabilizzazione delle donne, l’educazione delle ragazze, l’emancipazione femminile sono quindi i nodi cruciali. Non è una questione limitata ai soli paesi poveri: è altrettanto se non più importante stabilizzare la popolazione nei paesi ad alto reddito, dove i consumi e gli impatti ambientali sono assai più elevati rispetto a quelli a basso reddito e dove quasi il 40% delle gravidanze è indesiderato.
Infine, dobbiamo comprendere che rinvigorire sia la ricerca sia l’azione concreta alla scala dell’attività umana sul nostro pianeta, un pianeta finito, non è soltanto una esigenza, ma anche una opportunità.