di Donatello D’Andrea
Negli ultimi giorni alcuni personaggi pubblici stanno dando il meglio di sé stessi. Da chi decide di tenere aperta la propria discoteca, dimenticandosi di dire che è anche un bar, solo per far parlare di sé, a politici di spessore (solo mediatico per sfortuna) che puntano il dito contro un governo che “se la prende con i giovani”.
Al netto del fatto che le discoteche non andavano riaperte e che la responsabilità dell’aumento dei contagi è di tutti, giovani compresi, sentire un politico dire che il governo se la prende con una categoria è quanto di più sbagliato possa sentirsi. Dire una cosa del genere equivale a fomentare la reazione di una determinata parte sociale contro il potere organizzato, il quale in questo momento sta lavorando per il bene comune.
E non solo. Sostenere con leggerezza simili affermazioni significa dire che il divertimento vale più della vita di quegli stessi giovani. La discoteca prima di tutto. Il divertimento prima della salute. Il punto della questione, però, non è divertirsi o meno, ma imparare a prendere le precauzioni per convivere in mezzo agli altri. Sei mesi fa tutto in questo Paese si è fermato. Tutto.
Tutti hanno dato il loro, si sono sacrificati col fine unico di avere salva la vita. Ci sono 35mila morti e 200mila contagiati a confermarlo, se un senatore generico nutrisse ancora qualche dubbio al riguardo. Ma questo non importa perché “gli italiani hanno diritto a divertirsi”. Se si ammalano, però, la colpa è sempre del governo che ha aperto le discoteche.
Il prodotto politico di vent’anni di cattiva politica, disinvestimento culturale e dibattiti televisivi trasformati in osceni spettacoli di marchette e promesse ha dato alla luce una classe dirigente inadeguata che si rivolge al pubblico come un mercante si rivolge alla propria clientela.
Peccato che la politica non sia un mercimonio ma un esercizio collettivo di responsabilità. Due cose ben diverse e che producono conseguenze totalmente differenti. Quando si occupano determinate posizioni nella società, ogni dichiarazione è una bomba ad orologeria. “Se posso accaparrare il voto dicendo loro che il governo li punisce e non li protegge, anche se ciò ne vale l’equilibrio sociale, devo farlo. Al diavolo le conseguenze”.
Non conta trovarsi in una pandemia, non conta il ricordo delle terapie intensive e dei 5000 contagi giornalieri. Tanto il virus non tornerà. È un po’ come il pericolo del Fascismo. Tanto Mussolini è morto, quindi non c’è pericolo. Però, in un caso c’è il timore di un regime illiberale, non necessariamente quello mussoliniano – vedi Polonia e Ungheria – mentre per la seconda ondata del virus che è certificata dai 3000 casi in Francia e i 1400 in Germania, no.
Il grande problema di questo Paese è proprio la memoria. Peccato, perché i camion di Bergamo avrebbe dovuto essere un’immagine evocativa stampata nella mente di tutti gli italiani che ora chiedono di potersi strusciare in discoteca. Le fotografie di coloro che una volta venivano considerati eroi, cioè medici e infermieri, che invitavano a stare a casa perché la situazione era grave, ebbero un grande impatto mediatico.
Ma quello italico, o parte di esso, è un popolo fatto così. Dopo un po’ di tempo si stufa della solidarietà e delle regole e chiede a gran voce i propri diritti. I doveri non fanno parte della discussione perché è lo stato a doversene preoccupare.
Un Paese incapace di imparare dal proprio “ieri”, non potrà mai avere un “domani”. E con una pandemia in corso è legittimo chiedersi, data l’incertezza galoppante, come sarà il questo domani. Invece di fomentare gli elettori stanchi e disattenti, la politica dovrebbe incentivare una discussione di questo tenore. Altro che discoteche.